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EMILIANA, racconto di una Grande Guerra, di Andrea Bartalesi

23/11/2020

a cura di Andrea Bartalesi

A seguire con la pubblicazione di VIVA L'ITALIA, storia di un fante-ardito della prima guerra mondiale, Vi propongo una ulteriore storia dello stesso periodo.

In questo racconto troverete le tracce di una grande famiglia porcarese, i DI GIULIO, macellai, di case che nel tempo si sono trasformate, come il negozio di Beppino, di curiosità, come il perchè Via Pacini si chiami così.

E' anche la storia che si ripete, i reduci tornavano ammalati di alcolismo e la figlia che cerca di ricordare, ormai in età  molto avanzata, i fatti tristi e vuol ricordare il padre solo per la gioia e la serenità che le dava la sua sobrietà. Buona lettura. Per ogni comunicazione vi metto il mio telefono 339 8936268 Andrea Bartalesi

 

EMILIANA

01


"Bene, cosa vuol sapere?”
Ed eccomi inchiodato su questa sedia come una farfalla nel suo quadrettino.
Ero andato a trovare Emiliana in una casa viareggina elegante quasi raffinata. Ci
aveva presentato Giancarlo nipote della donna e al quale sono legato fin dall'infanzia
da una mancata amicizia e da una conoscenza sommaria. Dovevo scrivere del padre di
Emiliana, Gino Di Giulio, un combattente della Prima Guerra Mondiale, porcarese.
Alla presentazione, alla quale aveva provveduto Giancarlo, era seguito un incrocio di
occhiate indagative, un cercare di qualche ragguaglio, un modo di fare o di dire, uno
sguardo che ci certificasse in qualche modo di esserci già incontrati. Ma saputo il mio
cognome lei mi disse: “Lei non è porcarese” e chiuse le sue ricerche.


Io invece, ancora curioso proprio per il mio appartenere a questa comunità pur
essendo nato altrove e da genitori non lucchesi, continuavo la mia ricerca, ma saputo
che lei a un certo punto della sua vita si era trasferita a Milano dove era rimasta per
tanto tempo, andavo cercando in epoche diverse se per caso ci fossimo incontrati. La
nostra storia di persone vissute ha diversi scenari e cambiando periodo, cambiando
data, tutto si modifica, gli alberi non sono più gli stessi, case importanti non c'erano i
volti di chi passava per strada, le loro biciclette, gli zoccoletti che rumoreggiavano
sulle strade polverose di sassi.


Mi meravigliai di lei, guardandola, così bianca di capelli, con quegli occhi che si
infiammavano, a volte, per poi placarsi, le stampelle portate come un accessorio e forse
non del tutto necessarie, ma di aiuto per il normale camminare.

“Vorrei parlare con lei di suo padre” le volevo dire “ma non in modo nozionistico, ma
di com'era fatto suo padre, nel rapporto di tutti i giorni con i figli dopo aver vissuto
una esperienza devastante come la Grande Guerra, mi piacerebbe conoscere le
carezze, se l'accarezzava o i baci come si posavano sulla sua guancia di bambina o
come le stringesse la mano quando la portava in giro o se da uomo osasse raccontarle
una storia piacevole quando lei stava per addormentarsi e se le parlasse del principe
azzurro e del suo cavallo bianco”.
Lei forse si aspettava che io le chiedessi dove suo padre fosse stato in guerra, in quali
luoghi e le medaglie che gl i erano state date al valore. Giancarlo, da ottimo
intrattenitore, aveva preparato tutti i cimeli, conservati in splendide cornici, non
ricordi polverosi, ma lucide testimonianze di un sentimento orgoglioso di
appartenenza.


Avevo avuto già modo di dare un'occhiata a fotocopie di questi e mi ero perso nella
ricerca di luoghi famosi per gli aspri e durevoli conflitti.
A noi che ci avviciniamo alla Grande Guerra sembra che i teatri dove si celebrassero le
gesta dei nostri eroi fossero pochi e molto famosi, il Piave, il Carso, il Pasubio,
l'altipiano di Asiago. Io, che avevo partecipato ad alcune edizioni di una marcia detta
“dei Forti” (Forti come fortificazioni e austroungarici e non italiani) ne rimasi colpito
dai piccoli crateri che ancora sono vivi sui dossi e vicino ai fortini, solo appena
stemperati dal tempo, crateri provocati dalle bombe italiane che venivano giù dal
Pasubio. Come vedere i bui camminamenti che ancora esistono dentro i fortini, le
feritoie sulla vallata della Vallarsa che divideva dal Pasubio.

Anni e anni di lavori sui due fronti, cunicoli, gallerie, trincee. Un ospedale sul fronte
austroungarico con una scala (detta dell'Imperatore) costruita apposta perché
Francesco Giuseppe potesse raggiungerlo.
A primo impatto viene la voglia e la curiosità di sapere dove Gino avesse combattuto,
lui artigliere di montagna, lui uomo robusto, i muli che portavano pezzi di batterie da
montare, lunghe giornate in trincea, riparandosi dal vento e dalla noia. I fili spinati
oltre ai quali ti aspettava una crepitante mitragliatrice e i tuoi assalti alla baionetta,
oltre i fili, oltre quello spazio di nessuno, dove il tuo cuore batteva e lo sentivi in gola,
lo sentivi nelle tempie, martellante come una tua mitragliatrice interna, sapendo che
un uomo ti si sarebb e parato davanti, alla fine, e che uno solo dei due sarebbe andato
avanti.
Gino aveva cambiato diversi luoghi di guerra e ne sono riportati alcuni sugli attestati
che l'Armata gli aveva dedicato con onore.

(foto storica della Tribuna Illustrata)

 

 


Avevo parlato con Renzo, un nipote di Gino, e lu mi aveva detto di come suo zio fosse
un uomo a posto, un vero uomo, come a lui desse consigli di vita, consigli che ora
tutti hanno sulla bocca, ma che suo zio li aveva già sulle labbra allora, prima di
quell'anno 1969 che lo portò via.
Lui con suo zio parlava e gli chiedeva consigli, mentre Daniele, suo cugino, se la
intendeva più con suo padre: scambi di amore filiale, molto più facile parlare con uno
zio con il quale si potevano affrontare anche argomenti che si pensava fossero
scabrosi, mentre il padre era il padre.


Renzo detto Vasco, figlio di Francesco detto Vasco, faceva il macellaio, come quasi
tutti i suoi zii. Erano stati una potenza quando il paese di Porcari sembrava un
avamposto sugli acquitrini e le melme del Lago di Bientina. Le case, poche, erano
abitate da grandi famiglie che vivevano insieme. Lui aveva finito il suo lavorare alla
Guerrina, luogo storico, fra la grande casa del Carmignani, quella dei Lazzareschi,
Aquilino già aveva chiuso la sua piccola officina di biciclettaio per andare i n Australia
a trovare i figli che vi erano emigrati. Il Vannelli aveva rilevato l'officina, il Bigio
aveva il suo bar, Giubba e Guerino giravano con i loro caratteri, chi falsamente
accigliano e chi interamente imbiancato dalla farina. Ma questi erano già i tempi
nostri, quelli del dopoguerra, la Seconda Guerra Mondiale, quelli del boom, anni 50.
Renzo parlava dei tempi eroici, quando i suoi zii in centro, macellavano ben sette
bestie la settimana e vendevano le lombate ai più grandi Alberghi di Montecatini .
Tempi con la merce assoggettata al dazio, corse notturne, posti di blocco. Avevano
macellerie in centro una vicinissima all'altra. Ma chi comprava la carne?

 

(la seconda puntata il 30 novembre)

Andrea Bartalesi