Home  -   Chi Siamo  -   Cronache  -   Calendario Corse  -   Porcari Corre  -   News & Eventi  -   Il Medico Risponde  -   Tabelle Allenamento  -   Spazio Video  -   Contattaci
Home   -  Cronache   -  Cronaca

EMILIANA terza e ultima puntata

06/12/2020

a cura di Andrea Bartalesi

Ecco la terza e ultima puntata

 

°°°

E mostrano con sussiego e nostalgia la loro vita da indovinare dietro un atteggiamento.

 

 

“La Prima Guerra Mondiale si concluse con la vittoria dell’Intesa e dei suoi possenti alleati (27 nazioni vincitrici, fra cui l’Impero Giapponese). Dieci milioni di morti”

(La Storia – Elsa Morante)

 “Durante la seconda grande epidemia, la propaganda bellica alleata aveva sfruttato l’Influenza    diffondendo in Germania il seguente volantino:

«Betet tüchtig Vaterunser, - Nach wei Monat seit Ihr unser; - Dann bekmmit ihr tüchtig Fleisch und Speck, - Dann geht euch die Grippe weck!»

ovvero: “Recitate il Padrenostro perché nel giro di due mesi cadrete in mano nostra; allora mangerete carne e prosciutto e l’Influenza vi abbandonerà”

Sul fronte italiano la malattia fece la sua comparsa a primavera con una breve epidemia di carattere assai benigno per poi scomparire nel mese di giugno. L'ultima offensiva asburgica sul fronte degli altopiani fu dunque combattuta senza l'assillo del febbrone debilitante. La Spagnola iniziò di nuovo a mietere le sue vittime da luglio in poi raggiungendo l'apice ad ottobre. Questa volta l'affezione, pur se identica a quella primaverile, era caratterizzata da gravi complicazioni polmonari che causavano aggravamenti ed improvvisi decessi. A metà ottobre si arrivò, tra le truppe in linea, addirittura a punte di 3000 nuovi casi giornalieri.”

(Il Flagello della Spagnola- Sanità e Grande Guerra)

 

 


5

Gino tornò dalla Guerra con tutta la sua stanchezza e la consapevolezza di aver  vissuto un brutto periodo della propria vita. Aveva lottato, si era anche ribellato, non poteva assistere a colpi di testa di personaggi indegni della carica che portavano in mostra sulla propria giacca. Tornò da ardito dopo essere partito come artigliere di montagna. Nel nuovo corpo, ideato proprio per distruggere, intervenire con “ardimento” nelle vicende della guerra per modificarne a volte la monotonia, trovò modo di sfogare la propria rabbia di uomo mite.

Aveva la bocca arsa da una sete di giustizia che non sempre sotto le armi si manifesta, trovò a casa miseria e malattie, anzi alcune le portarono con loro i soldati tornando alle loro case, quasi un regalo, un ricordo dalla Guerra insieme a tutte le conseguenze di un conflitto. Trovò persone che non avevano più da mangiare e che non trovavano la forza di rialzarsi per continuare a vivere.

Gino pensò di mettersi a lavorare a testa bassa, come sotto le armi, quando obbediva in silenzio, ma sentiva che era troppo triste per vivere ancora, aveva bisogno di tenerezza, di

tutto l’amore che gli era mancato negli anni di trincea, il suo sangue si ritrovava giovane, si riscopriva quasi a pensare a come deve essere la vita con una donna accanto, una donna con la quale dividere i dolori e le gioie, perché questo mondo prima o poi doveva rendere tutto quello che aveva tolto.

Vide una ragazza, cominciò a pensare a lei e quando pensava a lei sentiva che stava meglio, non pensava più ai suoi tristi anni di guerra. Erano momenti difficili, non c’erano soldi, sembrava non esserci avvenire, ma lui pensava a Lida, perché la donna si chiamava Lida, era una Genovesi.

Lui cominciò a interessarsi a lei. Una bella donna che viveva in una situazione particolare: suo padre vedovo aveva preso una seconda moglie e da questa unione era nata una bimba, Alfea, quella che poi sarebbe stata la mamma di Giancarlo.

Lida “guardava” Alfea; si occupava di lei, invece di giocare con le bambole allora si giocava con i fratelli minori. Si portavano dietro nei campi, le famose bigonce dove venivano messi i bambini sotto un gelso o lungo una proda, le zanzare che si avventavano su quei piccoli volti, su quelle manine che annaspavano nell’aria, sui pianti e sul moccio…

Gino aveva la sua presella nel Padule dove andare a lavorare, dove si cercava di riprendere almeno quel poco di affitto che veniva pagato. Ma il lavoro di macellaio era nel suo sangue.

Nel 1920 chiese in moglie Lida. Dopo poco si sposarono. Fu un matrimonio dolce e particolare, quasi di fretta, da persone che mentre ancora dicevano si, cominciavano a rimboccarsi le maniche, ma insieme, non più soli. Non c’era tempo per le cose esteriori. Gino ogni volta che prendeva una decisione importante sentiva in bocca il desiderio di un sorso di grappa, ma non c’era grappa come al fronte, c’era un vinello aspro e allungato con l’acqua, non ti dava la carica, ma piano piano ti disintossicava o ti incitrulliva, se la debolezza fisica e mentale aiutavano, perché molti trovavano nel bere la soluzione dei loro pensieri.

Lida aveva deciso di sposare Gino, ma con il dolore di dover lasciare la piccola sorellina che allora non aveva ancora dieci anni. Viveva  accanto al marito e questi, da persona sensata e amorosa capì che doveva dare un figlio a quella donna, un figlio che potesse sostituire nei suoi pensieri Alfea. Darle un impegno voleva dire trovare una giustificazione a quella mancata assistenza alla famiglia.

Furono mesi di attesa e di lavoro. Lida sentiva il marito nel sonno notturno agitarsi, parlare, gridare frasi oscure, con un suono gutturale, lo sentiva ansimare, gemere, piangere. Lei lo stringeva a sé, gli prendeva la mano e dolcemente, come solo una donna sa fare, la posava sul suo grembo dove in sintonia con il suo cuore anche un altro piccolo corpo si muoveva. Lui si svegliava sudato, ma non placato, la guardava, la baciava e la prendeva ancora una volta in quel letto che sapeva di foglie di granturco secche. Lo faceva con rabbia e con dolcezza e poi finalmente si adagiava accanto a lei, grato.

Fu così che nel 1922 nacque Emiliana.  Aveva due occhi luminosi, quando li apriva, due manine paffutelle che sembravano accarezzare il mondo.

 

Questa è una storia come tante, una storia di uomini normali che vissero momenti epici, loro malgrado. Li vissero con il coraggio e la determinazione del momento, il loro eroismo veniva in superficie perché la vita chiedeva loro se volessero vivere o morire, se volessero ribellarsi al destino che sembrava scritto. Poi forse si abituarono ad essere eroi. Avevano vissuto una guerra, ma dovevano ricostruire insieme l'Italia ricostruendo la loro vita. Furono anni di lotta e di povertà, di ingiustizie ancora più nette, con persone che credevano trovare il rimedio nella presunzione e nella prepotenza. E pensare che l'Italia, per la storia, aveva vinto la guerra.

Ma sappiamo bene che nessuno vince una guerra.

 

Andrea Bartalesi

Agosto 2015