ecco la quinta puntata:
Angiolina aveva conosciuto Franz, anzi lo aveva visto, una domenica mattina, scendendo da San Martino, dalla Chiesa dove aveva partecipato alla Santa Messa che lo zio prete aveva celebrato. Scendeva lungo la strada sotto la Chiesa che, girando intorno a quell’albero maestoso, a quel quercione, portava alla Villa dei padroni. Lei amava il quercione e forse nemmeno lo sapeva, ma le piaceva passare di lì e guardare i lunghi rami nodosi che sembravano sospesi fra cielo e terra. Correvano, quei rami, paralleli al terreno, grossi e così pesanti che l’albero sembrava dovesse mettere fuori tutti i suoi muscoli per poterli tenere. Ecco che il tronco si contorceva quasi in spasimi di fatica. Lei lo guardava e le sembrava che fosse una creatura vivente. Oddio una creatura vivente lo era, ma lei pensava che se qualcuno stesse lì e gli parlasse, all’albero, questi sicuramente avrebbe risposto. Con una bella voce, grave, profonda. Avrebbe detto sicuramente delle cose sensate, da albero antico. Fin da piccola aveva avuto un misto di amore, rispetto e paura del quercione. Sarà anche per tutte le leggende che c’erano intorno a quei rami lunghi e contorti, di balli di streghe, di festini, in quella terra che di festini se ne vedeva sempre meno. Anche quando venivano i trebbiatori a trebbiare il grano le mitiche mangiate a sedere sui sacchi di grano erano ormai dimenticate. La guerra aveva invaso le campagne, i colli, le case.
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D’un tratto, come sempre, le apparve maestoso con le sue ombre il quercione, ma sotto ai lunghi rami quattro carriarmati puntavano intorno i loro lunghi cannoni. Quasi lunghe dita di una mano ossuta, sembravano indicare il paesaggio intorno. Avevano un che di strano in quel posto: macchine da guerra, macchine da offesa invadevano la pace ombrosa del quercione, del “suo” quercione. Quelle corazze metalliche sembravano colorate di ombre: erano mimetizzate dalla luce e dalla mancanza di questa. Avanzò turbata e indecisa, con la paura solita per colpa di quei soldati, per le raccomandazioni che continuamente le erano fatte. Anche l’amica si avvicinò a lei, fino a sentire contro il suo fianco il fianco di lei e il braccio stringere il suo braccio. E tremava, l’amica. E anche lei aveva nei muscoli tutto un tremolio. Pensò che tornare indietro sarebbe stato peggio e poi non vedeva nessun soldato. Appena rinfrancata, continuò per la sua strada. Sul finire della radura, radura che si era creata il grande albero, un giovane, in camiciola e pantaloni, stava appoggiato ad un alberello. Con le gambe incrociate sembrava si guardasse le unghie delle dita, mentre un altro soldato, disteso per terra, con il berretto sulla fronte, sembrava dormire. L’altro, quello delle unghie, alzò lo sguardo senza alzare la testa e sorrise. Sì, sorrise. Sorrise come un ragazzo qualsiasi, come un amico, come un conoscente. No: sorrise in un modo speciale. La grigia camiciola sbottonata sul collo, i suoi capelli tagliati corti, normali. Tutto normale, ma il suo sorriso non era normale. Era una giornata al mare quel sorriso. Era il sole di mezzogiorno, era il cielo azzurro, era un fiore che sbocciava, era il cuore che batteva, era l’amore che piombava, era un sentimento che da cielo in terra si manifestava. Angiolina non sapeva più cosa fare. Tenne la testa diritta davanti a se, fiera, decisa, ma i suoi occhi seguirono nelle fessure delle ciglia il ragazzo fino a che l’angolo della sua vista glielo consentì. Sentì illanguidirsi la stretta dell’amica nell’avambraccio. Ma forse era lei che non aveva più la giusta percezione del tatto. Tutti i suoi sensi erano indeboliti per dar forza alla vista: avrebbe voluto fermarsi, girarsi, sorridere anche lei. “Sciagurata cammina! Ma quello è un tedesco, lo sai o no? Stupida cammina che se lo sa mamma…” E così dicendo dentro di sé, si trovò distante, dietro la curva. L’amica si voltò veloce e si voltò ancora: “Oddio che paura, meno male che non ci hanno seguito. Gesù mio misericordia, corriamo a casa. Corriamo dai, corriamo”. Ma Angiolina non aveva fretta: il cuore voleva uscire dal suo seno. Troppe emozioni insieme. Era tutta accaldata e non ragionava.
O
forse ragionava troppo e in modo così simultaneo da non connettere. L’amica quasi per inerzia l’accompagnò a casa e lì la salutò. Ma Angiolina allora, come tornando da un viaggio nel suo animo, si scosse e volle accompagnare l’amica a casa sua.
”Vengo con te, non si sa mai. E poi torno subito indietro.”
E così fece. Appena nella corte l’amica chiamò la madre e affannata le raccontò l’accaduto, l’incontro.
“O mamma, tu vedessi, oddio che spavento, due tedeschi, una doveva dormire e l’altro lì impalato che ci guardava e sorrideva. Mamma tu vedessi che bel sorriso che aveva, ma io ho abbassato subito gli occhi, con uno spavento dentro che non ti dico.”
Quando Angiolina sentì che anche l’amica aveva notato il sorriso del tedesco sentì dentro come un morso, un malessere che le prendeva qui sopra lo stomaco, anche se non riusciva a localizzare il posto preciso. Sicuramente però c’era una noia diffusa in tutta la persona. “Ma guarda questa smorfiosa, ha visto un bel sorriso. Figurati, come se guardasse lei! E se invece di sorridere a me lui sorrideva a lei?
Del resto io più che vedere intuivo. Ombre fra le mie ciglia. No, sicuramente era per me quel sorriso. Quante cose ha detto con quel sorriso. Ma tanto io non lo vedrò più e speriamo che se ne vadano presto con quegli ammassi di ferro arrugginito e polveroso dal mio quercione. Speriamo che non rompano niente, che non battano nei rami bassi. E che i caccia non li vedano altrimenti addio quercione, addio a noi, addio alle nostre case. Altro che sorriso.”
Tornò velocemente a casa, parlò con la mamma per mettere il segnale alla finestra per il babbo che, per carità, non tornasse a casa.
???
Il giorno passò e venne la notte e con la notte le lunghe ore di attesa del mattino. Il sonno non voleva venire. Ogni rumore era uno spavento. Il babbo non era tornato a casa per paura. Il nonno già si alzava per andare nella stalla alla luce dell’alba che si indovinava altre il colle. Un venticello doveva muovere una lamiera vicino alla stalla e il rumore chissà quante volte udito, tormentava Angiolina. Sognava ad occhi aperti, fantasticava. Aveva cominciato a immaginare il suo tedesco che sfidando le ire dei suoi superiori, si fosse introdotto in
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casa sua, fino nella sua cameretta da quella piccola finestra aperta, salendo dal fico.
E con tenerezza avesse chiesto di poter entrare per poterla vedere meglio e da vicino perché non riusciva a dormire, dopo l’incontro di quella mattina. E lei che diceva “Andate via, voi e i vostri carri armati e guai a voi se fate dei danni al quercione” “Ma signorina io non posso fare male a niente che è amato da voi, perché io sono innamorato pazzamente di voi. Come posso dare a voi dispiacere?”
Che notte! Angiolina si girava sul fianco e sudava. Non serviva a niente la leggera brezza che entrava dalla finestrina. Il calore era interno, veniva da dentro di lei. Erano i suo pensieri, le sue smanie, i desideri che si manifestavano, contrastati.
“Ma sarà dunque questo l’amore? Ma come posso io amare chi non conosco? Sarà questa un’infatuazione della quale a volte mi parla la mamma?
Ma come posso desiderare un uomo del quale non conosco la voce o il colore degli occhi?
Non sapere nemmeno il suo nome… eppure sono tutta turbata e questo è un fatto, non un’illusione. E’ un fatto certo: sono turbata e non solo perché ho visto un tedesco, perché di tedeschi ne ho visti tanti. Anche troppi. Sempre da lontano, ma qualche volta anche da vicino.
E uomini che sorridono quanti ne ho visti? Mi sorridono tutti quando mi vedono e tutti sembra che sorridano perché vogliono qualcosa da me. Ecco, proprio così. Mi guardano, mi sorridono e chiedono con gli occhi. Sorrisi di accattonaggio. Quello del tedesco oggi era un sorriso e basta. Era un sorriso come non ne ho mai visti. Un sorriso al quale una può concedere tutto. Ma cosa dico, sciagurata che non sono altro. Domani mattina subito dallo zio prete a confessarmi!”
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la sesta puntata il 28 Ottobre
Andrea Bartalesi