Ciao Andrea, come vedi ogni tanto cerco di romperti un po' le scatole.
Anche stavolta è per una buona causa e se ne hai voglia puoi pubblicare il mio resoconto della Staffetta Corri con Paolo fatta il 1° luglio? Eccolo: Una generosa, grande famiglia allargata. Avevo trascorso una nottata disastrosa. Due ore di sonno, decine di risvegli a vagare in giro per la casa, il caldo che mi opprimeva, la tosse, il raffreddore e il mal di gola che non mi facevano respirare. Poi c’erano quei pensieri che apparivano solo quando mi preparavo per il riposo. L'uno dopo l'altro, mi entravano nella testa e si aggregavano ad altri, apposta per disturbarmi e non lasciarmi dormire. Ce n'erano di buoni, ma molti erano cattivi e preoccupanti. Non mi era parsa la notte ideale prima di una giornata calda e calorosa. Queste due parole non erano sinonimi: una indicava la temperatura ambientale, l'altra il calore di un gruppo di amici. “Dove vai?” borbottava mia moglie appena la sveglia iniziava a fare il suo dovere. “A Pisa, lo sai.” Capivo le sue preoccupazioni, ma il desiderio di essere partecipe alla Staffetta Montecarlo – Pisa con gli Amici di Paolo era superiore a qualsiasi difficoltà. Essere entrato in questa famiglia così generosa e di grande cuore, mi faceva sentire un verme se non avessi ricambiato con i due metodi che ero capace di usare. Correre e scrivere. Non che fossi un gigante per entrambi i modi, ma non tutti crescono locomotive a due gambe o meritano il Pulitzer per la scrittura. Via Roma e piazza Carrara erano già colorate di rosso. L’ultima volta che ero comparso qua, le vidi strapiene di gente. Era il 14 aprile, tremila persone apparivano preparate a rendere festosa la Corri con Paolo. Se chiudevo gli occhi, sentivo ancora l’allegro frastuono di quel pomeriggio. Eppure Montecarlo era un borgo silente e tranquillo, arroccato sul suo colle, avvolto dalla sua fortezza, ma quando l’intenzione diventava buona e generosa, tutto il paese offriva il meglio di sé. Pure le pietre parevano animarsi. Entravo così nel gioco degli abbracci e dei saluti. Ognuno mi chiedeva come stavo e molti si preparavano nell’eventuale solidarietà, in caso di una mia qualsiasi richiesta d’aiuto. Il mio naso arrossato e le mie occhiaie rimanevano immagini da film horror. Nemmeno mia madre, quando mi svegliava per andare a scuola, si preoccupava come stavano facendo loro. Mi guardavo intorno e scorgevo in questa generosa staffetta, un’ottima scorta di podisti eccezionali. Se avessi potuto leggere i loro curriculum podistici, avrei avuto giramenti di testa. Tra i loro podi e le tante vittorie si poteva costruire una bacheca apposta. Ammiravo Odette, la gazzella pluri vincitrice. Vedevo Gino, il re delle Alpi Apuane e dell’Etna. Incrociavo Marco, che oltre ai suoi stupefacenti risultati stava ipotizzando una spettacolare gara composta con sette maratone in sette giorni nei sette continenti! Abbracciavo Massimo, che ogni volta che corre sente le strade lamentarsi per i suoi passi sempre più veloci e prorompenti. Stringevo Umberto, che nonostante la sua pacatezza da dottore pareva un leone scalpitante pronto ad azzannare. Poi notavo un giovanotto che indossava maglietta rossa, ma non conoscevo: un certo Claudio, che tra i suoi risultati spiccava la vittoria europea di corsa in montagna! Baciavo Enzo, che la sua corporatura muscolosa pareva dire che avrebbe corso i trentotto chilometri a torso nudo. Salutavo per la prima volta un podista che, forse, era l’unico cui potevo avvicinarmi come livello. Vista da così, avevo la voglia di tornarmene a casa subito. Cosa ci facevo qua? Io, che nei miei risultati sembrava che in ogni corsa competitiva avessi fatto due giri. E che in ogni volta avrei dovuto ribaltare la classifica per essere da podio? Io, che avevo visto sverniciarmi la canottiera da Gloria Marconi, subito dopo la nostra partenza, una sera ad Altopascio. Mentre ero preso dalle mie elucubrazioni podistiche, cosa assai sbalorditiva per me prima delle otto del mattino, eravamo richiamati per fare la fotografia ricordo davanti al monumento della piazza. Ogni anno c’era sempre meno spazio libero. Piazza Carrara era diventata piccola per tutti noi. Da lassù, intanto, Paolo rideva sornione. “Muovetevi, vi sto aspettando!” Pareva dirci. Ancora attimi di attesa. Cathy dava gli ultimi suggerimenti, dopodiché tutti eravamo pronti a scendere verso Porcari. Auto, biker, podisti, biker, auto. Il treno che viaggiava era suddiviso in questa maniera. L’andatura era più veloce degli anni passati. La temperatura era già pronta a diventare l’attrice protagonista. Io ero un ricettacolo di problemi fisici, un cumulo di batteri, insomma uno scarto da gettare nell’umido, ma dentro di me avevo il desiderio di fare la mia parte. Cercavo fin da subito di liberarmi i pensieri negativi, perché lamentarsi dei propri malanni noiosi ma passeggeri, era come giocare a scacchi con Kasparov e volere vincere in quattro mosse. Io, che avevo dentro di me ancora le sensazioni delle Special Olympics di Montecatini, dove gli acciacchi di quei meravigliosi atleti erano lunghi e duraturi, forse perenni. In confronto a loro ero un paio di pantofole squarciate. La mia discesa era sofferta. Questi primi chilometri non mi stavano promettendo niente di buono. I veri podisti erano già tre passi oltre i miei. Non c’erano giovani per appoggiarmi. Pure le cicliste erano scappate via. Sentivo solo la macchina di Alessandro. Lui era la chiusura del treno Corri con Paolo. In pianura ripresi lo stimolo, approfittando delle gambe degli altri che rallentavano. Tra le strombazzate dei clacson e il campanaccio di Cathy, eravamo arrivati al primo punto sosta. Era una domenica estiva qualunque. Per noi, un giorno di festa in tutti i sensi. Anche quello del gusto. Al Pane e Poi si poteva già pasteggiare. Due persone si erano aggiunte alla carovana: Cinzia e Massimiliano. Non si sentivano allenati (e chi ci credeva) e così avevano preparato la trasferta con la bicicletta. Da quell’istante anche la mia corsa si trasformava. In compagnia anche lo sforzo più distruttivo, pareva scomparire. Sembrava che la parlantina mi aiutasse a dimenticare i malesseri. In effetti, la traversata che intercorreva tra Porcari e Capannori assomigliava a una passeggiata sulla riva di un lago. Con Cinzia, Massi e Michela, avevo trovato un buon supporto morale. Ogni tanto udivamo le scampanate e le urla di Cathy, mentre si alternavano i corridori per riprenderci, evitando che noi ci si staccasse troppo. Nella mente pensavo a mamma papera che tornava a riprendersi i pulcini, prima di metterli in fila per attraversare la strada. Nel centro di Capannori c’era una sensazione di euforia. Era caldo, ma la voglia di muoversi e banchettare era enorme. Con la coda dell’occhio intravedevo Giorgio e un asciugamano bianconero. Il Club Juventus era proprio qua accanto. Erano questi gli unici due colori che potevano sventolare in Italia. Con allegria la carovana si rimetteva in funzione. Io avevo sempre il mio distacco e una bicicletta accanto a farmi da cicerone. Il motore dell’auto di Alessandro pareva riscaldarmi il sedere. Uscivamo dalla città e guardavo i ragazzi cambiarsi i tratti da correre. Era l’emblema della staffetta. La gioventù che si passava di mano i chilometri che cercavano di fuggire. Ogni metro andava vissuto in onore di Paolo e per L’Agbalt che ci aspettava trepidante a Ghezzano. Scappavano via Casalino e la zona industriale, poi si entrava nella magia assolata della campagna lucchese. Correvamo sopra quelle stradine che apparivano disegnate col lapis, talmente erano strette e contorte. Per chissà quale motivo, non c’erano i campi di girasoli. Il cielo divideva il verde del granturco terrestre dal giallo intergalattico del sole. La schiena sudava, il cuore batteva, i passi scalpitavano, le nostre voci riempivano il silenzio di questa mattinata estiva. Un covone ci accoglieva come un padre. Era posato lì, pareva attenderci e chiamarci. Noi c’eravamo avvicinati per stringerlo in un abbraccio. La natura che offriva, l’uomo che ricambiava. Ripartire era ogni volta più faticoso. Giusy e Cathy continuavano a chiedermi se avevo bisogno di un passaggio in macchina. Io rispondevo che stavo bene, anche se un indurimento al polpaccio sinistro mi faceva pizzicare la gamba. Preferivo non pensarci. Tutto alla fine si poteva dimenticare. Il sole stava esagerando. A dispetto, il percorso si basava su strade senza traccia di ombra. Avrei voluto chilometri di ombreggiante da portarmi dietro. Ecco cosa devo chiedere alla maghetta francese per l’anno prossimo. La periferia capannorese attraversava Verciano e in questo paese svuotato, o addormentato, c’eravamo noi a rendere giustizia alla baldoria che mancava. Qualche persiana si era aperta, alcune persone erano scese incuriosite. In fin dei conti la vita di campagna non poteva offrire grossi richiami la domenica mattina. Perfino le scuole e la posta erano chiuse. Stavo per oltrepassare l’acquedotto Nottolini e il mio sguardo coglieva una striscia sterrata che lo costeggiava. All’ultimo istante ritiravo il pensiero e con un balzo quasi da ostacolista evitavo di finire nel fossato. L’effetto di quella muraglia portatrice d’acqua era meraviglioso. Da qui a Pisa. A Badia di Cantignano la sosta diventava importante. Lo spazio verde, la chiesa, l’ombra, le panchine, tutto dava quel senso di riposo e voglia di adagiarsi sotto una quercia per non rialzarsi se non alle otto del pomeriggio, quando la pancia iniziava a borbottare per la fame. Tutto rincomincia e finalmente anche per noi podisti arrivava l’aria un poco (assai poco, ma sufficiente per darci respiro) più fresca, nell’unico tratto, dei trentotto chilometri, sotto gli alberi. C’era un minimo di salita e questa volta la trovavo dura da superare. Anche il palloncino che avevo legato addosso faticava a sopravvivere e tra i rami di un rovo esalava l’ultimo respiro. Non erano dei buoni segnali. C’erano la triste visione di una grande villa abbandonata e l’apprezzato tuffo sotto una fontanella. Era sopraggiunta anche la Strada Statale 12, che bolliva di olio, benzina e sudore. Una leggera salita a destra ci portava a Santa Maria del Giudice. Il dolore al polpaccio aveva deciso di farmi arrabbiare. Era rimasto nascosto per alcuni chilometri, ma prima che mi fermassi in una sosta così calorosa da non riuscire a capire se erano i nostri sostenitori a renderla tale o proprio il sole che ci arrostiva, mi stava richiamando con un allerta tipo la spia di una cintura slacciata. Avevo preso dell’acqua e una susina, ma pochi metri dopo, insieme con altri tre, mi ero fermato per un altro tuffo sotto il rubinetto. Queste fontanelle di paese erano una meraviglia. Andrebbero dichiarate all’Unesco per farle diventare patrimonio dell’umanità. Rientravamo sulla Statale e un metro dopo l’altro, aspettavo quella fauce aperta, come Geppetto quando fu ingoiato dalla balena. Consigliavo a Cinzia e a Massi di fare in fretta, ma stavolta rimanevo sorpreso in positivo. Mi ero proposto di mettermi in tasca una bomboletta di Svitol, viste le due volte precedenti dove ne ero fuoriuscito con le mani imbrattate di lurido grasso. Invece, era stato un tratto appena piacevole. Ho avuto fortuna e all’interno il caos era sopportabile. L’aria era ventilata, quasi fresca. Il muro e il marciapiede erano asciutti, quindi correvo discretamente. All’uscita, il sole mi abbagliava e voleva prendermi a cazzotti. C’era da fare l’unico tratto in formato trail. Avevo appena posato il piede sulla prima pietra e il dolore al polpaccio si era esteso e moltiplicato per due. Possedevo due gambe gemelle, nei dolori e nella debolezza. Il tempo necessario per scendere fino l’Anfiteatro e prendevo la decisione di arrendermi. Il gruppo era tutto in fermento. Era un luogo caldissimo, l’erba era secca, i pulviscoli viaggiavano nell’aria come i gabbiani dietro a una barca di pescatori. Il sole strideva e i forasacchi ci riempivano le scarpe e si attaccavano ai calzini. Avevo le gambe dure come due blocchi di legno. La nostra pazienza stava diventando l’immagine che attendeva Paolo. Lui andava a spasso nell’infinito, in una discoteca luminosa per ballarci la sera, ma in questi momenti era in quel mare di nuvole sopra di noi. Era disteso sopra il materassino appoggiato sull’acqua. Nella mano stringeva una bottiglia di Coca Cola. Vedevo la cannuccia infilata nella sua bocca e le bollicine fargli luccicare gli occhi. Davanti a sé aveva un televisore acceso. Sullo schermo apparivamo noi in quest’otto esteso in orizzontale. Come nel finale del video di Elisa Una poesia anche per te. Ripartivo, anzi io mi fermavo sul sedile della macchina di Alessandro. Per me 30k (all’incirca) bastavano. Non ero smagliante alla partenza, né straripante durante la corsa, figuriamoci a questo punto. Era caldo pure in auto, ma parlando la calura si dimenticava. C’eravamo fermati ad Asciano, ma non li avevamo visti passare. Loro erano più avanti, lungo l’acquedotto. Avevo approfittato della sosta per farmi l’ennesimo salto sotto una fontanella. Sudavo, anche se non correvo. Mancavano pochi chilometri, ma solo nell’ultimo sarei rientrato. Gabriele ed io eravamo scesi dall’auto. Pronti ad attendere quei valorosi podisti. “Eccoli!” Mi ero aggiunto e le loro gambe erano ancora più veloci delle mie. Mi sentivo rappreso come un blocco di marmo. Come se l’ultima mia corsa l’avessi fatta sei mesi fa. Avevo dolori al petto, alle braccia, alle gambe, alle ginocchia, al sedere. Ero curioso di sapere con che cosa ero stato costruito. Mia madre e mio padre, forse, avevano usato uno stampo fabbricato male. L’arrivo all’Isola dei Girasoli era stato pazzesco. Un’armata schierata per portare bontà e sogni. Un uragano di persone che regalava novità generose. L’asfalto era zeppo di noi. Stretti per mano, sorridenti e sudati, calorosi e gioiosi. Urlanti e felici. Come se fosse la prima squadra che atterrava su Marte. Dopo un totale di 3h51.20 e circa 29k, mi ero ripulito e cambiato. Ero tornato bello come una rosa. (Eh no, meglio non esagerare, mica ero andato dalla De Filippi a chiedere un miracolo.) Direi accettabile. C’era il ristoro offerto dall’associazione, ma quello che più importava, vedevo dei gran sorrisi. Il meritato riposo dei guerrieri senza spada. Eravamo tornati fuori, sul prato, mentre i più giovani giocavano col pallone. Facevano tre sport in uno. Un misto tra pallavolo, pallacanestro e calcio. Avevano la voglia di ridere e scherzare. Beata gioventù. Si scattavano le foto conclusive. Il gruppo era aumentato e qualcuno aveva ancora il palloncino proveniente da Montecarlo. A chi era scoppiato, n’era stato dato un altro. L’attesa per il lancio pareva quella del Voyager. Poi un urlo invase la zona. Paolo si sarebbe divertito a scoppiarli tutti. Ci avrebbe messo del tempo, ma ci sarebbe riuscito. La carovana si stava raccogliendo. Le biciclette erano state caricate e i podisti raccolti con le proprie borse. Qualcuno andava verso casa, ma la maggioranza si dirigeva verso quel paradiso terrestre che si chiamava Casa Cathy. -Umberto non te la prendere, le donne sono le padrone.- Io salivo in macchina con Alessandro, Martina, Gabriele e Filippo. Questo viaggio di ritorno era il secondo svago della giornata. Parlavamo di molti fatti, tante vicende, viaggi, lavoro, corse. I miei dolori erano scomparsi. A Casa Cathy, Giorgio sentiva il desiderio di rendere pubblica a questa sua famiglia allargata, il merito della medaglia ricevuta dal comune di Montecarlo. La bellissima Arianna si era guadagnata i complimenti per la laurea in filosofia e Lucia il piacere di festeggiare il compleanno. In questo trio viveva un’emozione particolare. Il pranzo era perfetto. Oltre alla compagnia, le cibarie erano da premio Masterchef. I dolci, indimenticabili. Parola di goloso. Intanto c’erano i tuffi in piscina, le tante chiacchiere, i ricordi del tempo che passava e delle persone che mancavano. Si costruivano progetti, desideri, tra cui quello della Notte Bianca di Paolo per un’affascinante staffetta in notturna. Erano le quattro del pomeriggio e pareva giunto il momento di staccare gli occhi dal tutto il bello che avevo intorno. Potrei aggiungere che sarei rimasto qui in eterno? Allora per non impaurire Cathy e Umberto in questa mia eventuale teoria, ripensavo a ciò che avevo eseguito e avrei voluto avere un megafono per ringraziare tutti. Ognuno aveva preso parte a questa mia gioia e si era conquistato i miei apprezzamenti. Tutte le persone che mi avevano preceduto, accompagnato, seguito, oppure aspettato, durante questa trasferta, avevano fatto qualcosa e tanto per me. Grazie a loro mi ero sentito in famiglia. In qualunque posto passavo, con questo fantastico gruppo mi trovavo a casa. Poi mi tornarono in mente i tre assegni, in fin dei conti erano il fulcro di tutto. Lo sapevo già e i soldi erano la sostanza più potente del mondo. Sia nel bene sia nel male. Potevano cambiare e modificare le cose, i fatti, le persone. Erano capaci a offrire cure e salvare bambini. Avevano la forza di decidere se lasciarli soli e sofferenti o farli sperare e sorridere un poco di più. Con i soldi ci volevano mani sapienti e cuori generosi, per una mattina, anche le gambe adatte. Loris Neri Grazie!
alcune foto
questi i tre assegni
al ristoro Massi osserva gli ingredienti
Cinzia invece è più fiduciosa
Marco Pallini in qualunque situazione è "un guerriero"
Umberto, seduto, sente tutta la stanchezza dell'impresa
Cathy ci scherza su
questa bimbamolto bella, sembra un quadro di Armando De Stefano
Giorgio fa il vago ma si legge nei suoi occhi la soddisfazione
Giusy con la sua criniera bionda... è felice
e per chi non avesse visto gli assegni....
Grazie a Loris per la sua verve poetica, ma sopratutto a tutti coloro che si sono dati da fare per questa manifestazione.
Questa è la quinta essenza della beneficienza, quella che non vive del "io ti do tu mi dai", questa è solo "io ti do".
Andrea Bartalesi