Ci avviciniamo alla fine, ecco la decima puntata
°°°°°
GINA
Sono andato a festeggiare Gina per il suo compleanno.
Cent’anni e non sentirli. Non averli addosso, solo un numero come risultato
della differenza fra oggi e, tornando indietro, la data segnata
sull’atto di nascita di una piccola bambina.
Cento anni e la guardo e vedo il suo sorriso splendido. Sempre il solito,
i suoi occhi sono titubanti. Non mi riconosce (colpa mia che sono
invecchiato, non sua, lei è lucida), e quando le dico “Sono Andrea” i
suoi occhi si fissano nei miei e mi rivede perché gli occhi si riconoscono
anche se uno è invecchiato e lei mi sorride ancora.
Subito si giustifica per non avermi riconosciuto. Io odio chi domanda
agli anziani “Vediamo se mi riconosci, vediamo... chi sono io?” Li odio
e mi sono ripromesso che un giorno, fra breve, se qualcuno mi chiederà
se lo riconosco dirò un nome di un comico, tipo “Sei Benigni”, come fece
il bimbo di un amico di mio fratello quando il babbo insisteva per fargli
dire a chi assomigliassi e lui dopo averci pensato esasperatamente,
rispose, appunto, “A Benigni”. Li odio. Mettere a prova la memoria e il
ricordo di chi vive attaccandosi a quei souvenir che gli sfuggono fra le
dita, è la cosa più brutta che si possa fare.
Gina subito pensa a mia madre, forse ha davanti agli occhi la mia famiglia
malandata in quel dopoguerra quando andammo a vivere accanto
a lei.
È l’ultima di quella famiglia di “buraschini”, la moglie di Francesco,
l’ultimo figlio, di secondo letto, di Felice Del Carlo detto, appunto, Buraschino.
Ci sono in giro, nella stanza, tracce di quella corte, Laetti, dove Angèlo
faceva il contadino e aveva le vacche e i campi dietro le cascine, la moglie
Ida che uscendo la mattina metteva ai piedi le scarpe che trovava
accanto alla porta e molte volte le scarpe di suo figlio Aldo, che chiamavano
“Cendora” e faceva l’autista e l’altro figlio Florio. Questi, prima di
fare il pompiere, provò a lavorare da Gervasio il carratore, e tornando la
sera, attraversando la corte, era talmente pieno di vernice da far ridere
mio padre quando lo raccontava a mia madre.
Qui c’è il figlio di Aldo, Angelo (come il nonno ma con l’accento giusto)
con tutti i suoi sogni, tornato dopo 40 anni in Inghilterra, ha aperto un
Agriturismo a Montecarlo.
C’è Mario e Erina figli di Gervasio. L’altra figlia, Carla, è in California.
Sposò Louis, figlio di un parente emigrato, (a Laetti lo chiamavano Illui)
e quando si sposarono, Carla e Louis lo fecero con Erina, io e Franca
facemmo i paggetti.
C’è Virginia, figlia di Italo il sensale che abitava a Viario, c’è Franchina
(per distinguerla da Franca) che viveva di fianco al Lecciolo, ci sono le
figlie di “Paese” che abitava al Moroni.
Ci sono i parenti di Gina, le figlie, tre, ci sono le loro belle famiglie. C’è
una piccolina che le porta un bel disegno, c’è la torta, c’è Bastiano, c’è
il Doroni e la moglie, ci sono tantissimi volti che conosco e non so chi
sono.
So che Gina si è fatta leggere il mio racconto sullo Sgughi e ha confermato
tutto quello che lei sapeva. Grande donna questa Gina, camperà
ancora cent’anni ne sono sicuro.
PERCHÉ
Mi chiedono: - Come mai Andrea, hai pensato di scrivere questa storia?
-
«Mi sono accorto che la gente, specialmente i giovani, quelli che ora
decidono il mondo, che lavorano, prendono iniziative, fanno i figli, non
conoscono lo Sgughi. Lo so, non è una grave perdita, il mondo cambia i
suoi personaggi, noi diventiamo nonni, noi, quelli di allora, non siamo
più gli stessi. Altri, i nostri figli, hanno occupato il nostro posto e loro
non sanno di noi, del nostro tempo. Lo impareranno, magari, da un
libro di storia, ma perderanno la nostra vita. La storia del nostro paese
ci sta scivolando fra le dita come sabbia. Ora, se ti metti a raccontare,
ti ascoltano a mala voglia, ti considerano un noioso. Domani, subito,
quando non ci saremo più, vorranno sapere (come è successo a noi)
e capire cose che non trovano sulla nuova memoria, Internet. Grande
mondo quello del web ma per trovare, qualcuno deve aver inserito e non
tutto quello che viene inserito è esatto. Poi c’è un vuoto da colmare, gli
anni di mezzo. Gli verrà sulle labbra una frase “se ci fosse ancora mio
padre, mia madre, mia zia, secondo il caso, lui... lei saprebbe dirti tutto”
ma sarà tardi. Questo è successo a me, andando in giro, chiedendo “ti
ricordi dello Sgughi?”. Ma quello che meraviglia è che proprio non ne
abbiano sentito parlare o solo in modo soffuso tanto non chiedere chi
fosse. E gli ultimi ricordi sono quelli che troviamo per prima, lo Sgughi
delle campanelle, del gioco d’azzardo, l’”ignorantone”. I parenti stessi
sembrano averlo voluto dimenticare in fretta.» - non è mica importante
conoscere la storia dello Sgughi o sapere come si è formata Corte Andreotti.
Ci sono cose più importanti. - «Certo. Ma sono i personaggi con
il loro rivivere che ci ricordano le consuetudini, il modo di trascorrere il
tempo. Il conoscere il passato serve per non ripetere gli stessi sbagli o
capire dove il nostro comportamento è stato giusto.
Mi sono accorto che manca quella che io chiamo la “memoria collettiva”,
quelle notizie che ci venivano e immagazzinavamo senza volontà,
in un salone da barbiere, in una stanzetta del bar, nelle chiacchierate
dei vecchi, o seduti sui gradini della nostra chiesa, la sera, nel racconto
degli aneddoti, delle “storie”. La corte, le veglie nel canto del fuoco, i
rapporti con i compagni e gli amici, loro erano la nostra memoria collettiva.
Tu ascoltavi e sapevi. Ora è quasi tutto sparito. Prova a domandare
in giro di un fatto accaduto trenta anni fa, ti meraviglierai, come
io mi sono meravigliato. Ora che mia madre non c’è più, vorrei chiedere
episodi della sua vita che m’incuriosiscono, che lei mi avrà raccontato
sicuramente, ma non è possibile domandare. Quando morì mio padre la
cosa che subito mi turbò, fu di non aver parlato con lui, di aver sempre
rimandato fino a che diventò impossibile parlargli.
Ecco perché mi sono messo a scrivere dello Sgughi. E riportando incontri
e notizie ho incontrato degli errori di date e piccole differenze di
storia, ma ho lasciato quello che può sembrare errore perché ho riportato
la “memoria”, non mi sono permesso di correggere. Vorrei che di lui
rimanesse la traccia. O almeno allungare il tempo per “quell’oblio che
saremo”. Che restasse la notizia delle sue sfide con il Fanini, che furono
epiche, che finiranno magari in un libro di storia, ma non sapranno mai
come Ugo mi chiamasse “Andreino” in corte de’ Laetti.»
°°° lunedì prossimo il finale
(Andrea Bartalesi)