Ed eccoci all'ottava puntata
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MARIA DEL BAR
Maria (nipote di Maria del Bar, “in cima” di Piazza)
- Lo Sgughi capitava a volte nell’ora di pranzo, entrava nella bottega
di generi alimentari tutto pulito, d’estate canottiera bianca, un’appariscente
catena d’oro massiccio con croce altrettanto grande, mi
diceva “Bimba, oggi mangerò bene” si avvicinava alla cassetta delle
aringhe e con un foglio di carta oleata ne prendeva una, poi un capo
d’aglio e, d’accordo con mia nonna, andava in cima al cortiletto dove
tenevamo un fornello e il sacco del carbone. Accendeva il fuoco e
metteva l’aringa ad arrostire. Mia nonna aveva lo spirito dell’ostessa.
A mezzogiorno capitava sempre qualcuno per un panino e diversi
impiegati della Banca Toscana venivano a mangiare. C’era il Paoli,
lui tutti i giorni voleva la pastasciutta. Poi diversi uomini che vivevano
soli capitavano per mangiare un boccone perché lavoravano o
solo per mangiare in compagnia. Mario lavorava alla Latteria, sempre
accigliato e serio, burbero, ma una gran brava persona. Alla latteria
lavorava anche Antonio: si metteva cavalcioni alla sedia, grande e
grosso, enorme. Una volta si mise a sedere su una poltrona di plastica
che si ruppe e Antonio cadde in terra rischiando di farsi del male e noi
a guardarlo, volevamo ridere senza sapere come fare per alzarlo. Mia
nonna era felice se qualcuno veniva a chiedere di mangiare un boccone.
Lei poi aveva l’abitudine di giocare una partita a carte, anzi, tutte
le sere era fissata la comitiva. Aveva compagni quasi sempre i soliti,
il Nerino del Poggetto, la sorella di mia nonna, Luigina e un’altra Luigina
di Antraccoli che faceva l’infermiera. Ma anche quando mancava
ai tavoli un quarto per giocare, lei era sempre pronta. Lo Sgughi,
arrostita l’aringa, se ne andava in uno degli ultimi tavolini del bar
dove mio padre Giuseppino e mio nonno Gigi avevano una discreta
clientela. Gigi aveva il culto del vino buono, lo comprava in damigiane
dall’Angiolini, ma sapeva anche bene quando era il momento del vino
buono o di quello comune. Per chi andava sulla quantità il buono era
sprecato.
A volte allo Sgughi si univa il Negus, anche lui uomo solo che viveva
a Pacconi, elettricista, girava con una piccola Ape, ci fu un periodo
che camminava con le stampelle, non so bene cosa avesse fatto. Aveva
una frase che veniva fuori, sempre uguale, si alzava e diceva: “Arrivati
a questo estremo punto il Negus vi dà la mano e vi saluta tutti per
l’appunto.” E si rimetteva a sedere.
Da quel momento sapevamo che aveva superato la soglia, avevamo
a che fare con uno sbronzo, i suoi ragionamenti non erano più da
prendere sul serio.
Quanti volti sono spariti nel tempo!! Un giorno io e mia sorella Claudia
trovammo un cartello attaccato al noce Noci avvelenate. Morte a
chi le tocca!!
Ci domandavamo il perché e chi potesse averlo messo. Dopo un po’ il
Mancino ci disse “Bimbe l’ho messo io il cartello” e cominciò a mangiarle,
le schiacciava con i denti, sembrava uno schiaccianoci meccanico.
Era un mondo così diverso da ora. La Nemesina se ne stava tranquilla,
a volte anche le figlie, il bar stava aperto fino a tardi, ci pensava
mio padre a tenerlo aperto, che pazienza!!! I clienti si mettevano a
giocare a carte, e non smettevano più. Per un bicchiere di vino o un
caffè stavano ore e ore.
Sai? Mia mamma ogni tanto canticchia
“Di Porcari lo Sgughi è il campione
al Fanini gli dà il polverone.
MA PERCHÉ SGUGHI?
Cristina mi chiede: - Sai perché lo chiamassero “lo Sgughi?”. -
Non lo so e nemmeno Clara, la nipote, che le è stata in qualche modo
vicina quando lui era ai primi successi, la bimba che riceveva in regalo
i mazzi di fiori delle vittorie.
Cristina: - Forse chiamandosi Ugo, sembra quasi una storpiatura di
un bambino piccolo, zio Ugo che attraverso zi..ughi diventa sgughi.
Chissà. -
«E tu Bastiano sai perché lo chiamassero Sgughi?» (lavorava in ferrovia
a quei tempi, c’era da chiudere e aprire le sbarre, con la bicicletta
andava a muovere gli scambi, c’era da caricare i pacchi sul treno, c’era
l’Agenzia di Giannini Marchi e Borzani... ci lavorava anche la sorella di
Clara, Patrizia.
- No, non lo so. Forse lo sapevo ma l’ho dimenticato. -
«Patrizia tu sai perché Ugo fosse chiamato lo Sgughi?»
- No. L’unico che lo può sapere è Claudio - il nipote che ha avuto successo,
quello che fin da ragazzo aveva una memoria straordinaria, “sapeva
tutto” - Se non lo sa lui, non lo sa nessuno. -
Ma Claudio non lo sa, dice di chiedere a Toscano, il più grande dei nipoti....
Su Facebook esiste uno Sgu@ghi ma non risponde.
Su Instagram abbiamo Sgughi e Sgughina.
«Scusa sto cercando il significato di Sgughi. Cosa mi sai dire? Sto cercando
di capire perché Del Carlo Ugo lo chiamassero Sgughi.»
Mi risponde gentilissima (è una donna):
- Sinceramente non sono in grado di aiutarti, il mio account si chiama
così perché è un soprannome che mi hanno dato i miei amici, senza
nessun motivo specifico. Non credo che abbia particolari significati. -
Certo. Poteva zigzagare fra le bici degli avverati e diventare imprendibile.
Bello, vero?
Ma ai fini della storia diventa un qualcosa che si è perso nel tempo,
come un fatto qualsiasi, come una bevuta al bar con un amico, come il
rapporto con una bionda che per tanti anni ha parlato con lui e lui con
lei, fa parte del gioco di quell’“oblio che saremo”, parti di noi che se ne
vanno subito ed altre che restano ancora per qualche tempo.
Ben presto Ugo smise di portare i soldi allo zio e anzi cominciò ad
andare a riprenderli, sempre più spesso, anche due volte per notte. Era
cambiata qualche cosa. Forse aveva cominciato a giocare a carte, a
scommettere. Erano gli anni che si giocava su tutto, sui piccioni (se riuscivano
a non farsi uccidere all’uscita dalla gabbia, al tiro) sui piattelli,
a carte, a poker, e non solo giocando, ma anche “traversando” ovvero
scommettendo su chi giocava. Erano interminabili partite a biliardo e
a carte per tutta la notte.
Fu allora che Francesco fece le ultime raccomandazioni a Ugo, ormai
uomo fatto, ma lui non capì e allora lo zio, gli rese i soldi e lui li finì
tutti.
Un noto personaggio porcarese aveva preso in affitto una casa vicino
alla chiesa di Padule e vi si davano appuntamento tutti i giocatori. Lui,
il padrone, se ne andava dopo aver riscosso il pizzo, per non correre
rischi o limitarli.
I giovani del luogo a volte entravano in quelle stanze piene di fumo e di
moccoli, di discussioni e di tristezza.
Ugo già da qualche tempo abitava in Corte Andreotti, la sua 131, che gli
era servita per fuggire con i suoi campanelli, restava in corte, davanti
la villa, muta, inutile, come un monumento a un periodo epico.
Divideva la casa con i fratelli. Felice, il Conte alias Buraschino, viveva
nella camera al primo piano, Ugo, sua madre e Tolò al piano terreno.
Vivevano come poveracci.
Sua madre, Gina Mencacci, era malata, sempre di più. Una malattia che
aveva a che fare con i reumatismi, diventava sempre più immobile e
contorta, anche se in testa era sempre lucida.
Ma Felice con la sua aria da aristocratico faceva credere di avere molti
soldi e forse li avrà anche avuti.
IL CONTE... ALIAS BURASCHINO
Leonardo mi racconta la storia dello Sgughi e di Corte Andreotti...
- I miei nonni abitavano a Fedele, la corte lungo la Fossanuova prima
dell’Andreotti e io, come tutti i ragazzi, andavo spesso da loro.
La corte si chiamava “a Fedele” perché quello era il nome del nonno
di mio padre. Ricordo un giorno che mio nonno Delindo parlava con
Buraschino, l’assicuratore. Sempre con il vestito e la camicia bianca
(nera al collo), cravatta, da lontano faceva un figurone. Mio nonno gli
chiese come mai non sistemasse la casa dove abitava. “I soldi li hai,
perché non sistemi quella casa, sembra di entrare in un porcile...”. Lui
con quel suo modo deciso e brusco rispose che non l’avrebbe fatta accomodare
fino a che non trovava un apparecchio...” Mi sono rivolto a
geometri, ingegneri, architetti, inventori, niente. Io sono tutto il giorno
a Lucca, cammino, cammino, sempre in giro a riscuotere le polizze
di assicurazione. Torno a casa la sera con i piedi che mi bruciano.
Voglio un aggeggio che quando entro in casa mi lavi i piedi e me li
massaggi. Fino a che non lo troverò non accomodo la casa!”
E lo diceva con quella faccia che sembrava sempre arrabbiata. -
Ho parlato con Angelo Del Carlo dello Sgughi e di suo fratello “Buraschino”
e lui mi ha mandato una sua bellissima testimonianza:
“Non ho conosciuto se non di vista lo Sgughi e nel periodo dei campanelli,
su in Pizzorna, mi ricordo quanto facesse dimostrare di non
conoscermi nonostante mi fossi piazzato davanti il suo banchetto
contornato da due o tre compari. Non ho giocato nonostante fossi
perché mio zio Alvo lo conosceva bene e più volte mi aveva
parlato della sua abilità di prestigiatore.
Mio zio conosceva bene anche Buraschino, perché coetanei, e più volte
mi aveva raccontato del pestaggio e come lui non avesse mai denunciato
chi lo aveva ridotto in fin di vita.
Ho conosciuto quindi Buraschino nel suo periodo di assicuratore. Lui
aveva assicurato le mie macchine, prima la 500 e poi il 124, e quindi
molto spesso era a casa mia.
Addirittura la sua ultima 124 verdolina l’avevo comprata io da Frediani
& Lencioni.
Dopo un incidente a Pracando, dove andavo a lavorare nella cartiera
di Stefani e Lazzareschi, la macchina era ridotta ad un rottame e irrecuperabile
e dopo ben sei mesi che attendevo la consegna della nuova
macchina, una mattina, esasperato dal ritardo, sono partito deciso a
comprare la prima macchina disponibile che avessi trovato.
Trovai dal concessionario Pacini una Ford Capri e cedetti il contratto
della 124 a Buraschino che ottenne la consegna dopo altri due mesi
(erano tempi d’oro per la Fiat!).
Poiché in quell’incidente il camion era finito fuori strada con l’autista
infortunato e con un referto di oltre 60 giorni io rischiavo il penale.
Buraschino trovò la forma di far liquidare il danno all’autista dalla
sua assicurazione l’Assitalia e ci istruì perbene, sia me che l’autista,
su cosa dire di fronte giudice; al momento della sentenza, grazie alle
sue indicazioni, tutto si risolse in una bolla di sapone senza nessuna
conseguenza per la mia fedina penale.
A quel momento Buraschino era già l’assicuratore ufficiale non solo
mio ma anche di Stefani e Lazzareschi e delle cartiere di loro proprietà,
era una persona estremamente competente nel ramo assicurativo
e credo che molti porcaresi gli siano stati riconoscenti per averli
tolti dagli impicci assicurativi.
Più volte mi ha ripetuto che è stato una delle prime persone che ha
visto mio padre morto sotto le ruote dell’autobus e, poiché mia madre
aveva ricevuto dall’assicurazione poche lire di risarcimento, mi diceva
sempre che se avesse già fatto l’assicuratore avrebbe saputo lui come
farci indennizzare equamente.
La 124 era il suo ufficio, aveva tolto il sedile accanto alla guida per
fare posto a tutte le sue scartoffie buttate sul pavimento e dove solo
lui ci si sarebbe rinvenuto.
Credo che quella macchina non sia mai stata lavata, sul cruscotto
due dita di polvere e i posaceneri traboccanti conservavano ancora
la prima sigaretta che vi era stata spenta. Quando la madre cominciò
ad andare fuori testa la sistemò sul sedile posteriore e se la portava
dietro durante tutta la giornata.
Era la disperazione di mia moglie quando veniva a trovarmi a casa.
Si attaccava alle tende e le stintignava dicendo: “ma che avrete nella
testa voi donne, le finestre son fatte per far entrare luce e voi le tappate
con questi cenci”.
Per non parlare poi della cenere delle sigarette che finiva tutta sul pavimento
nonostante mia moglie gli mettesse due posaceneri davanti e
quando gli dicevi che fumava troppo rispondeva che era da imbecilli
privarsi del piacere del fumo per allungarsi la vita negli ultimi anni
quando sarai magari infermo, malato e rincoglionito.
Era fatto così lui... e quando vedeva dare il cencio sul pavimento illustrava
il suo progetto della casa funzionale: la casa deve avere il pavimento
in pendenza, con una porta davanti e una in corrispondenza
sul retro, in modo, stando fuori per non bagnarsi le scarpe, da lavarlo
con una sistola d’acqua che sarebbe defluita dalla porta di fronte grazie
alla sua pendenza.
Secondo me aveva anche molti soldi perché dopo il pestaggio non aveva
altri vizi che non il fumo; spesso mi chiedeva quali forme di investimento
bancari fossero più convenienti e veniva per farsi fare i conti
degli interessi perché reputava tutti i banchieri dei ladri autorizzati.
Particolare era il suo portafoglio fatto da un foglio di giornale piegato
più volte dove teneva i contanti; quando gli chiesi perché non usasse
un portafoglio normale mi disse che una volta, in Via Beccheria
uscendo dall’Assicurazione, il foglio di giornale con i soldi dentro gli
è caduto in terra e se ne accorse dopo un po’, ritornò sui suoi passi e
lo ritrovò dove gli era caduto. “Pensi che se fosse stato un portafoglio
vero lo avrei ritrovato?”. Come dargli torto!
Negli ultimi anni ha cercato di inserire sua nipote nel giro delle assi-
curazioni portandola con sé a riscuotere le polizze ma la cosa è durata
poco perché si ammalò gravemente e, assistito da una vicina di casa,
nel giro di breve tempo morì.
La nipote è venuta a chiedermi se sapessi in quali banche teneva i
soldi però mi risulta che non sia mai riuscita a trovarli.” (ottobre 2017).
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Appuntamento al prossimo lunedi per un'altra puntata
Andrea Bartalesi