ANDREA BARTALESI
Lo Sgughi
Raccontare il dopoguerra con i suoi sogni e la realtà
attraverso la storia di un personaggio
Sono andato cercando
nella memoria delle persone la
storia di un personaggio mitico del
nostro territorio.
Così facendo ho riscoperto un
periodo storico che si mostra
attraverso la polvere del tempo.
Andrea Bartalesi
CORTE ANDREOTTI
La serata calda stranamente non portava odori e ogni tanto si levava
un venticello che sembrava mandato dagli amici di San Ginese. Solo
poche luci nella corte e nel vano sotto le scale patrizie, una lampada
che faceva sembrare le figure recitanti ombre cinesi. Parlavano di storie
e cantavano nenie, filastrocche, e s’intravedevano i volti dalle tante
candele accese tutto intorno. Una donna saltava facendo balenare le
caviglie dalle lunghe sottane gettate in alto dalle ginocchia inquiete,
portate dal tamburellare del cembalo e dalle note della chitarra.
Villa Andreotti prestava il suo grembo alla serata, inserita in quella
bella iniziativa che il Comune aveva preso e ci portava in giro per le
corti del nostro territorio, una riscoperta piena di meraviglie.
Guardavo le finestre importanti e addirittura sopra la porta d’ingresso,
al primo piano, un timpano e sopra di esso uno stemma.
Strano l’inserimento delle case ai suoi lati, appoggiate, quasi a proteggere
gli abitanti della villa, i padroni, dai malintenzionati. La villa
che si era trasformata in corte. Quasi madre che raccoglie, nel pericolo,
intorno a sé i propri figli.
Alle mie spalle sentivo la presenza della nera distesa dei cascinali e di
quelle che erano state le stalle.
Lo spettacolo ogni tanto richiamava il mio sguardo per il cambio della
filastrocca o lo schioccare di risa che riproducevano schiamazzi contadini
nelle aie.
Una dolce signora di nome Orfea che sedeva al mio fianco, notò come io
°°
fossi distratto e portato più al luogo che allo spettacolo.
- Vede? Io sono nata nell’ultima casa di corte verso la Fossanuova.
Sì, quella che ora ha quel giallo che sembra un pugno, ma che serve
come punto esclamativo a richiamare l’attenzione di chi passa, sprovveduto,
dalla strada.
No, quando io vi nacqui, non era gialla, ma era di mattoni e pietra
come le altre. Mio padre e la sua famiglia erano contadini del Franceschini,
il padrone. -
Mi trovai così fra una rappresentazione di cose toscane e la vera storia
di questa corte che sempre mi affascina e che mi ha seguito, meravigliandomi,
da quando ragazzo venivo in Padule in bicicletta.
- I Franceschini, gente di Altopascio, murarono la villa quando fu
bonificato il lago di Sesto. Erano gli anni di mezzo del 1800, parte
lago, parte acquitrini, parte palude, piena d’insetti e animali d’acqua
e uccelli palustri, vivevano fra le bisce e le “bodde”. Si è sempre raccontato
che i terreni di proprietà si allargavano, bastava spostare un
picchetto e dire ‘qui c’è mio’. Anche i Poggi pare abbiano fatto così.
Quelli che avevano la voce più grossa e il cuore saldo, quelli che avevano
persone alle dipendenze, notte tempo spostavano i picchetti e
fecero la loro “fortuna”. Anche se quelle terre non sembravano proprio
una fortuna. Molte zone erano più che un lago, una sorta di “chiaro”
che nel periodo di siccità si prosciugava, lasciando delle pozzanghere
piene di ranocchi e di uccelli che bivaccavano indecisi se bere l’acqua
sporca o mangiare i poveri ranocchi.
Erano tempi così. No, io ovviamente sono troppo giovane, pur avendo
i miei anni. La mia famiglia è stata contadina dei Franceschini da
sempre. Sa, dove abitavano i miei antenati? Vede, dove ora ci sono le
cascine e le stalle in fondo alla corte?
Lì arrivava ancora l’acqua e a bordo lago o palude, la chiami come
crede, avevano costruito delle baracche con le canne e materiale palustre,
cannelle, vimini, e si riparavano alla meglio, fra l’umidità del
luogo e del cielo. In molti morivano ancora giovani, il padrone si preoccupava
perché non aveva più braccia per dissodare e rendere fertili
quelle terre incolte e selvagge. Le baracche erano ricostruite e risistemate
continuamente. Un giorno il padrone decise di costruire una
°°
casa accanto alla villa, modesta, ma in muratura per una famiglia di
contadini suoi. La storia racconta che disse “mi costa meno fabbricarvi
la casa che farvi vivere nelle baracche”. -
Una teatrante gettava in alto le gonne e suonava il cembalo e cantava
una ninna nanna tramandata secondo il ricordo, dalle nonne alle nipoti,
oralmente, ma io ero ben attento, preso dall’incantesimo della corte
e della sua storia.
Un pensiero, si liberò nella mia testa, vagava al buio dei cascinali alle
mie spalle, agli animali notturni, un gufo, un allocco o un barbagianni,
disturbati da queste luci tremolanti, da questi rumori, da questa vita
che solitamente non c’era. Li immaginavo con i loro occhi fissi e la loro
espressione attonita trattenere il respiro e il verso che solitamente esce
dai loro becchi, ricurvi, sopra quella gorgiera gonfia di penne. Come un
lampo ritornai piccolo nella lunga camera nel palazzo dei Poggi dove
vivevo, quando un barbagianni, fuori, sul davanzale dell’ultimo piano,
faceva a gara con mia madre a chi russasse più forte. E mentre mia madre
era nella stanza accanto, il barbagianni mi sembrava sopra il piccolo
armadio di ciliegio, con il lungo specchio sempre muto. Infatti, difficilmente
mi ci specchiavo perché la mia immagine di ragazzo magro si
allungava ancora e poi anche perché scomodo con subito vicino il letto.
- Poi ne costruì un’altra e poi un’altra, sempre continuando ad aggiungere
sulla stessa linea alternando a destra e sinistra. Certo la
villa aveva perso importanza ma la corte ne risultava strana e aveva
un suo fascino. Forse anche quello stemma che lei vede sopra la porta,
era fasullo, creato apposta dai costruttori per dare una sorta di
patente aristocratica che, in effetti, non aveva. -
Probabilmente i Franceschini avevano aggiunto le case man mano che
i loro possedimenti crescevano e avevano maggior bisogno di manodopera
e sostituito le capanne con i cascinali e poi le stalle. Tempi eroici.
Ricordavo di aver letto qualcosa su una battuta alle folaghe e sulla
coltivazione del baco da seta.
- Certo che allevavano i bachi da seta, vede l’ultimo piano? Era adibito
a quella coltivazione e c’erano i cannicci, tenuti sospesi da piantoni
a base quadrangolare. Qui tutto intorno, piante di gelsi, anche in
fila come cipressi. La repubblica lucchese comprava e pagava bene i
bozzoli di seta. -
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Vediamo cosa scriveva di Porcari e della sua palude il famoso Georg
Christoph Martini, detto il Sassone, un italo- tedesco, pittore, scrittore,
archeologo e antiquario, di un suo viaggio in Italia e specificatamente
a Lucca descritto nel libro “Viaggio in Toscana” (1725 - 1745).
“All’inizio dell’inverno, ha luogo una divertente caccia nel lago di
Bientina a due miglia tedesche da Lucca.
Mi ci recai col fattore dei Buonvisi, Francesco Barsanti, esperto cacciatore.
Alloggiammo a Porcari nel palazzo del signor Maggiore Del
Poggio dormendovi la notte del venerdì, il sabato due ore prima di
giorno mi misi a cavallo. Essendo molto buio mi facevo rischiarare la
via con torce di paglia, esse, però si spengono con grande facilità ed
io perciò avevo sempre paura di cascare in uno dei fossi di cui la zona
è disseminata. A due miglia dal lago lasciai il cavallo e montai su una
barchetta. Questi natanti sono così piccoli che vi entrano appena tre
persone. Poiché io di caccia me ne intendo più a tavola che sull’acqua,
avevo preso con me sul barchetto un cacciatore di Porcari (i porcaresi
sono abilissimi) ed un terzo che stava al remo. Alle prime luci dell’alba
giungemmo al lago, lungo quasi due miglia tedesche ed in certi punti
lungo la metà. I barchetti usano mettersi in fila, ed avanzare in linea
fino a che si stendono per tutto il lago, e cioè si dice - fare la tela - .
Poiché noi eravamo arrivati un po’ in ritardo, la tela era già avanzata
alcune miglia. Sul lago si trovavano quella volta circa 300 barchetti;
e col tempo chiaro e calmo com’era lo spettacolo era bellissimo. Gli
uccelli a cui si spara sono le folaghe. Volatili neri quasi della grandezza
delle anatre selvatiche, col becco a punta e con zampe palmate
grazie alle quali possono nuotare velocemente: sulla testa hanno una
macchia bianca. Si trovano in branchi di molte migliaia e non volano
mai fuori del lago, anzi cercano sempre di tenersi sopra l’acqua. Perciò,
quando il cerchio dei barchetti si è stretto tutto il branco o –macchia-
delle folaghe si solleva a volo sul lago e necessariamente passa
sopra i barchetti. È allora uno spettacolo sentire e vedere come viene
fatto fuoco su quella schiera volante. Alcune folaghe, colpite in pieno,
cadono giù subito, altre invece si abbassano lentamente e cadono
spesso ad un miglio di distanza. Sul lago vige la regola che la folaga
appartiene a chi per primo l’ha colpita, anche se un altro la colpisce
°°
di nuovo e la uccide, ma si verificano spesso violente discussioni e
talvolta vi sono cacciatori che tornano dal lago impallinati come io
stesso posso testimoniare.
Il mio cacciatore aveva sparato ad una folaga che piano piano calava
quando un altro cacciatore da un altro barchetto le sparò finendola.
Quello della mia barca fece immediata opposizione dicendo che non
avrebbe consentito che l’uccello venisse toccato perché gli apparteneva,
l’altro ribatté che non era stato colpito e che si voleva forzare la
legge del Lago. Una parola tira l’altra, finché si accapigliarono e si
presero di mira con i fucili: volevano spararsi a vicenda, per quanto io
protestassi che dell’uccello non m’importava niente. Il mio cacciatore
voleva però sostenere il suo buon diritto e ribatteva recisamente di
cedere l’animale. Nel frattempo si avvicinò in soccorso un’altra barca,
nella quale era probabilmente un amico o paesano del mio cacciatore
che puntò senz’altro il fucile sull’oppositore minacciandolo di portarlo
alla ragione, se non avesse inteso le nostre buone ragioni. Al che gli
altri, tra i quali v’era un religioso del territorio fiorentino, vennero
a più miti consigli e pregarono che fosse loro per lo meno restituito
il colpo, ma neppur questo il mio cacciatore volle accordare e prese
l’uccello. Io ringraziai Iddio che l’episodio si fosse concluso così bene
perché in quei posti non scherzano. Come le cose vanno a finire lo
potrebbe dimostrare un contadino con cui ebbi occasione di parlare a
Porcari. Alcuni anni prima aveva ricevuto un colpo tale sotto il bellico
che, con rispetto parlando, una parte dell’intestino retto gli pendeva
fuori. Non sapendo come evitare un’infezione, glielo avevano tagliato,
così era guarito ma in modo tale che nel punto della ferita era rimasta
un’apertura e gli “excrementa” che avrebbero dovuto essere eliminate
per la via naturale, passavano invece per la nuova apertura sulla
quale teneva una fascia, come mi fece egli stesso vedere, mentre di
tanto in tanto alcune feci liquide uscivano in piccola quantità dall’ordinaria
via.
Il fratello del mio cacciatore per un grave atto di violenza era stato impiccato,
il barcarolo della riva opposta non poteva venire sul territorio
di Porcari perché aveva ucciso il caporale del fattore di Buonvisi, e
dovette vogare fino alla riva fiorentina, a poche miglia di lì. Tipi della
stessa specie erano quelli con cui parlai a Porcari, e da questi non ci
può aspettare altro.
°°
In mezzo al lago c’è un’isoletta con una casa dove facemmo colazione,
assai parca in verità, perché come è noto i cattolici non mangiano
carne nei giorni di venerdì e di sabato; e così ce la dovemmo cavare
con stoccafisso, formaggio e pane. Rimanemmo sul lago fino verso
sera e il mio cacciatore aveva tanto riempito il barchetto di folaghe
che c’era da remare con un bel carico: erano infatti 27 capi per un
peso notevole. Personalmente ne avevo abbattuto cinque.
A sera ritornammo a Porcari, dove trascorremmo anche la domenica
per l’assaggio delle nostre folaghe che mi piacquero molto.”
D’accordo che si trattava di cento anni prima della bonifica e della
costruzione di Villa Franceschini, poi diventata Andreotti, ma questo
scritto ci fa capire come gli uomini vivessero senza scrupoli e le ragioni
erano fatte rispettare a suon di colpi di fucile. Salvo poi essere ligi, da
buoni cattolici, alla vigilia il venerdì.
Ora la Villa Andreotti è di proprietà della famiglia Del Carlo. Allora perché
Andreotti? La signora Sandra, deliziosa donna che aveva in sé tutte
le movenze e lo charme di una nobildonna, è stata l’ultima residente nel
palazzetto inglobato in questa corte contadina. Suo marito era figlio di
quell’Andreotti Adolfo che acquistò i beni dalla Famiglia Franceschini.
Una delle figlie della signora Sandra ha sposato un Del Carlo.
Finito lo spettacolo, ci sentimmo estranei su quelle sedie di plastica
bianca, nel mezzo alla corte, mi sembrava essere fuori dal tempo, inadatto.
Guardavo il blu del cielo, anzi il nero, sopra di noi, l’altana imponente,
il cemento scrostato dell’aia, Forse erano le candele nei recipienti
che reclamavano di essere rimesse in una cassapanca, di ritornare nella
polvere del tempo.
Spente le luci dei teatranti, il buio invase la corte e poi, mentre ci alzavamo,
sembrò che qualcosa rischiarasse la corte, forse una luna dimenticata
o nascosta dietro le “mandolate” dei fienili e fu che allora
guardai la casa accanto alla villa, alla mia sinistra.... una casa, che
doveva essere povera, malandata quasi stracciona, ma che era stata
restaurata con gusto.
«Ecco lì al numero 166 abitava lo Sgughi.»
Del Carlo Ugo, nato a Porcari il 4 luglio 1929 e morto a Pisa il 24 marzo
1987. Detto Lo Sgughi.
fine primo capitolo
il secondo da 11 luglio
Andrea Bartalesi