Qui di seguito la SETTIMA PUNTATA
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IL DUELLO FANINI - SGUGHI
Di Ivano Fanini, il rivale acerrimo dello Sgughi, sul quale se vincevi ti
riempivi di gloria, i giornali hanno scritto, quando è morto, poco tempo
fa, nel 2015:
“Il ciclismo lucchese piange uno dei suoi “capostipiti”. È morto nella
notte, all’età di 86 anni, Ivano Fanini senior, zio del patron di Amore
e Vita e iniziatore della passione per la due ruote che ha finito per
contagiare davvero tutta la famiglia. Fanini è venuto a mancare, lasciando
un grande vuoto nei ricordi della famiglia ciclistica lucchese.
Per la passata generazione era stato un vero e proprio idolo, apprezzatissimo
ciclista. Tra Segromigno e Porcari i cuori si dividevano tra
lui e il compagno di sfide Del Carlo Ugo, conosciuto da tutti con il
soprannome di Sgughi. Correvano a livello dilettantistico, ma nella
Piana, entrambi si erano ricavati il loro pubblico, capace di scommettere
sulla vittoria dell’uno o dell’altro perfino delle vacche, all’epoca
uno dei beni più preziosi.
“E’ stato lui – commenta amareggiato per il sua scomparsa il patron
di Amore e Vita – a trasmettere a me e a tutta la famiglia la grande
passione per il ciclismo che ci vede tutti impegnati, in un modo o
nell’altro in prima fila”.
Fanini senior aveva lasciato le corse in bicicletta negli anni 50, dopo
aver subito una squalifica per presunte scorrettezze in volata dopo
aver conquistato un’esaltante vittoria sulle Mura di Lucca. In quegli
stessi anni decise di emigrare in Argentina, dove aveva avviato diver-
se attività commerciali, che lui stesso ha curato personalmente fino
all’ultimo.”
(cit. da Il Tirreno - 19.10.2015)
Lo Sgughi si era creato un suo mondo e voleva esserne il re. Aveva
intorno persone che lo osannavano, disposte a sacrificarsi per lui. Era
un mondo che gravitava intorno al Bar Bigio, alla Guerrina, i fratelli
Carmignani, Aquilino, altro “biciclettaio” ma soprattutto Rodolfo del
Precisi. Era lo zio di Felice Toschi. Lo chiamavano “il Precisi” come
il nonno, perché portava le braccia dietro come faceva già un altro e
quindi erano... precisi. Il fratello, Toschi Raffaello, era stato il podestà
di Porcari, Abitavano nella villa fra l’Orfei e la Guerrina. Rodolfo era un
appassionato di macchine. Ricordo anch’io di averlo visto sfrecciare con
una Giulietta rossa: quell’auto fu una rivoluzione... non si era mai vista
un’auto così potente. Fu presentata al Salone di Torino nel 1955 e la sua
foto fu sulla copertina del numero uno di Quattroruote.
Chiedo a Felice quale macchina avesse suo zio quando portava lo Sgughi
a correre. Lui senza indugio mi dice “La 103, poi in seguito una TV
che era un modello più spinto”.
Ivano mi aveva parlato di una 124 sport. Era comunque una macchina
di prestigio e appariscente. Proprio quello che ci voleva allo Sgughi per
arrivare sul posto di partenza come un trionfatore.
C’erano le scommesse fra i sostenitori. Queste attiravano in quel mondo
entusiastico personaggi che vedevano il modo di fare quattrini. Forse
quello fu proprio il momento in cui Ugo conobbe persone che poi sarebbero
diventate la sua rovina. Nel momento del suo maggiore successo
s’insinuano intorno a lui personaggi che guardano al loro portafoglio
senza pregiudizi. E Ugo, abituato all’entusiasmo del suo popolo, dei
suoi facoltosi sostenitori, fa confusione e non capisce quali sono le vere
amicizie.
Rodolfo del Precisi e gli altri, i Carmignani, il Cesca, Colombo di Lazzaro,
gli volevano bene, lo seguivano anche quando andava fuori regione
e lui forse credeva che tutto il mondo lo amasse solo perché lui vinceva
ed era un campione.
La sfida sull’autostrada con il Fanini fu un evento. Chi la organizzò ot-
tenne la chiusura al traffico e partirono i due sfidanti da Firenze o forse
da Prato (così ricorda il Poli “biciclettaio” a Giannotti). Ma l’autostrada,
ripensandoci, mi sembra non partisse da Firenze, ma quasi da Prato.
Porcari aveva un rapporto particolare con l’Autostrada Firenze-Mare.
Fu costruita negli anni 30 e inaugurata nel 32. Dette origine a molte discussioni.
A Prato dicevano che questa strada avrebbe impedito lo sviluppo
a sud della loro città, altri che l’avrebbero costruita per i signori
che così potevano raggiungere il mare di Viareggio e di Forte dei Marmi
e quindi, loro, che non erano signori, erano contrari. A Porcari erano
tutti contenti. Lavoravano con i barrocci a portare la ghiaia che era
caricata nel Serchio e alcuni lavoravano nel cantiere come scalpellini. A
Pacconi, che di Porcari era un luogo autoctono, con le sue corti dove gli
abitanti passavano i pomeriggi seduti sui calcagni a tirare i paragoni,
vicino alla Ralla e le esondazioni annuali cicliche, da sempre i mestieri
erano subito copiati. Uno comprava un barroccio e un miccio, tutti lo
imitavano. Tutti a fare vettura. Uno faceva granate di saggina e tutti
nelle capanne a fine corte a fare granate di saggina. Si racconta che al
tempo della costruzione dell’autostrada si alzassero presto per andare a
caricare la ghiaia e far più viaggi possibili e per non far sentire agli altri
che partivano, foderavano gli zoccoli dei micci e le ruote del barroccio.
Anche lo Chalet di San Martino in Colle pare sia un retaggio della costruzione
dell’Autostrada, un favore, una ricompensa, non so bene.
Nel frattempo il nostro Ugo aveva fatto amicizia con una figlia della
Terellè di Rughi, la Titta. Una biondina tutta ricci. La gente ancora la
ricorda “un po’ così, ma bella come Sofia Loren”. Caratteri, entrambi,
forti, si trovavano d’accordo per combinarle grosse ma non per vivere
un amore. Relazione difficile, destinata a finire.
UGO E L’AMORE
«Ilda tu hai conosciuto la Terellè?»
- Certo. Un giorno con la mia bicicletta nuova, mi pavoneggiavo in
centro del paese: davanti Beppino mi fermarono due ragazzette e in
malo modo mi fecero scendere e se ne andarono con la bicicletta. Erano
le figlie della Terellè di Rughi. -
«E tu Amelia ricordi la Terellé?»
- Certo, stava “in corte dietro” come diceva mia mamma, faceva paura
quando urlava, ma era sempre lei che veniva a farci il bucato quando
mia madre era a letto aspettando la nascita della mia sorellina. La
vita nelle corti, non è più come allora, quando i bimbetti crescevano a
casa di tutti, quando i nonni erano di tutti... e giù novelle, per sgranare
i fagioli, per cucire, per passare il tempo... -
Ugo non credo abbia avuto una vera relazione amorosa, anche se in
seguito frequenterà una signora che aveva un negozio in centro. Sembrano
più ragazzate e poi contatti di comodo. Se ha avuto una storia
d’amore, non c’è dato di saperlo. Certo verrebbe da pensarla, lui così
focoso ed esuberante, una relazione da “trovatore”, ma sembrava preso
solo dal rischio.
Si racconta che avesse una “dama bianca”, proprio agli inizi, verso Borgo
a Buggiano, e che questa possedesse una grande villa e come lo
Sgughi la consigliasse di venderla e di comprare una casa più piccola.
Quello che me l’ha raccontato (montecarlese, che ha corso in bicicletta)
ha aggiunto maliziosamente... “Così lui prendeva i soldi della differenza,
ma lei invece di vendere la villa, lasciò lui!..” sembra esserci una
vena di gelosia in tutto questo. Mi ha anche detto che nel 1953 incontrò
lo Sgughi in treno. Andava a correre a Firenze ma non era più lo stesso,
i vizi, le donne... (e dai!!!). Anche il montecarlese andava a correre a
Ponterosso di Firenze, ma lui era allievo. A Montecarlo in quegli anni
erano in due a correre, il Lencioni e il Riccomi, padre di quel Riccomi
che diventerà un discreto ciclista professionista.
Pensare a Ugo, al suo carattere e alla sua presunzione certo c’è da credere
a chi racconta che “una volta” stava vincendo una corsa con distacco,
si fermò centocinquanta metri prima dell’arrivo, prese una bella
ragazza che stava assistendo, la mise a sedere sul cannone della bicicletta
e con quella tagliò il traguardo. Quello che la gente racconta dello
Sgughi comincia sempre con “una volta”. I fatti sono diventati fiabe,
viene da pensare a principesse addormentate e principi azzurri anche
se questi invece che a cavallo arrivavano in bicicletta.
Si racconta anche che molte donne volessero far l’amore con lui per
avere un figlio, tale e quale a lui. Ma sappiamo anche che nelle corti, la
sera a veglia, tutto sembrava vero e possibile. A Montecarlo, Simone la
guardia, poetava e nei mercati e nelle fiere cantava le sue rime. Aveva
dedicato un suo brano allo Sgughi ed era un pezzo richiesto e famoso.
“Di Porcari lo Sgughi è il campione
al Fanini gli dà il polverone...”
Erano gli anni in cui nelle case si “rifinivano” i guanti o le maglie, o si
sentiva sferragliare le macchine da maglieria. C’era Gemma di Pendone
che dava il lavoro a casa, e passavano a ritirarlo i fattorini. Angelo Cerri
era un meccanico che riparava le macchine da maglieria, Angelino
invece le vendeva o le dava in uso e nelle case c’era odore di olio... e
scatole di aghi che si rompevano continuamente.
I CAMPANELLI
Avevo incontrato Ugo alla falegnameria LAIM. Io ero stato incaricato
da Rodolfo Lucchesi a ripristinare la contabilità della società alla morte
di un socio, “il Regio”. Passavo mezze giornate al primo piano nel magazzino
dei mobili e tenevo i documenti in una ribaltina, mi scaldavo
anzi, bruciavo una parte di me, con una stufetta a gas mentre l’altra
metà, come quella della Luna, quella non illuminata dalla rossa luce
del gas, era gelata. Erano i primi anni 60. Trovai Ugo che stava facendo
costruire dal Mancino il cuscino sopra il tavolinetto per il gioco
dei campanelli. Avevano messo uno strato di gommapiuma e ricoperto
tutto di un panno rosso, che dava sul bordò, un tessuto di velluto raso.
Ugo premeva il panno controllando che si formasse quella depressione
da dove doveva “fuggire la pallina” per andare a infilarsi sotto l’altro
campanello.
Erano i primi anni del boom economico, era passato il momento della
”Topolino amaranto del 46” che ci descrive Paolo Conte:
“Sulla Topolino amaranto... su, siedimi accanto, che adesso si va. Se
le lascio sciolta un po’ la briglia mi sembra un’Aprilia e rivali non ha.”
Chi aveva coraggio o aveva delle idee, cercava di attuarle, le case automobilistiche
sfornavano modelli sempre più veloci e lussuosi, e lo
Sgughi aveva smesso di correre già da diversi anni, e frequentava personaggi
dubbi. Forse aveva iniziato a fare lo ”zeffiro” a Agostino lo
Zingaro. Lo zimbello o zaffiro era chiamato quello che davanti il tavolo
dei campanelli, puntava i soldi e vinceva per convincere gli altri, quelli
ignari, che era facile vincere. Era una consuetudine: ricordo negli anni
di scuola in via Fillungo, davanti la storica Libreria Baroni, si incontrava
un uomo con il tavolinetto e una scatola piena di camiciole di lana.
Lui parlava decantando i pregi delle maglie e due donne davanti a lui
stavano ad ascoltare e prendevano in mano la merce valutandola, Quelle
due donne, sempre le stesse, erano la figlia e la moglie del venditore.
Solitamente il giocatore dei campanelli o delle tre carte si piazzava in
luoghi affollati, come i mercati, le fiere, oppure dove andavano a pranzo
i camionisti (loro avevano sicuramente con sé dei soldi). Lo Sgughi
all’inizio forse era il personaggio che richiamava gente, famoso per aver
vinto tante corse. Forse gli passavano una percentuale sulle vincite o
lo pagavano solo perché fosse presente. Ma Ugo sapeva di non essere
secondo a nessuno e certamente si era messo in proprio. Era lui ad
assoldare gli “zeffiri”, e in molti accettavano per un guadagno facile.
Cominciò il periodo delle fughe dai carabinieri e dalle guardie. Era un
gioco d’azzardo e non era ammesso perché si sapeva bene che c’era il
trucco. Per esempio nelle fiere c’erano altri giochi, altrettanto affidati
alla sorte. Come un tipo di giostra con tante casette numerate con un
porcellino d’india che andava nella casetta dove lui voleva e faceva vincere
chi aveva puntato sul numero corrispondente. Erano gli anni degli
alberi della cuccagna, dove i paesani più atletici si misuravano e cercavano
di arrivare al prosciutto o al salame attaccato alla ruota in cima
a un palo senza corteccia e ben insaponato. Mi raccontano che in un
paese, in Sardegna, alla ruota avessero legato un agnello vivo e come
questo belasse in modo straziante prima che un ardimentoso riuscisse
a portarselo a casa.
I soldi che guadagnava Ugo li portava allo zio Francesco, il sarto, e
durante il giorno molte volte andava in sartoria a raccontare le sue
avventure.
“Ieri a Vallombrosa, ho visto da lontano che le guardie mi avevano
notato, ho preso il mio tavolinetto e sono andato alla macchina, ma
loro mi stavano seguendo e così sono scappato, giù per i tornanti con
la 131, a tutta, curve e controcurve, per poco non esco di strada, meno
male che si sono fermate”.
“Non si può dire che tu faccia una bella vita”. Era Armando, il lavorante
di Francesco, della Fratina, sempre con la testa china sui pantaloni
da cucire, ago, filo, e un punto dopo l’altro, Francesco, con il gesso che
disegnava i pezzi della giacca sul tessuto steso sul tavolo, ridacchiava
ma consapevole della triste verità. Armando era sempre a cucire ma la
testa la liberava negli spazi e aveva sempre una battuta pronta, una
storia da raccontare e un paragone da tirare.
“La fai meglio tu la vita! Sempre con quell’ago, sempre con il filo in
bocca, testa bassa, diventerai gobbo presto!!!” rispose Ugo.
Francesco lo consigliava e lo invitava a investire quei soldi guadagnati
con l’inganno e anche con tanto rischio, ma Ugo non capiva.
Fu perfino accusato di furto insieme ai suoi amici e fu arrestato e portato
in carcere. Lui non confessò mai dicendo che si trattava di un errore,
di essere innocente. Quando uscì dal carcere Lisein de’ Ricci, quello
del cremore, disse che sarebbe andato a trovarlo perché Ugo non voleva
più uscire di casa.
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fra una settimana l'Ottava puntata
Andrea Bartalesi