Ed eccoci alla TERZA PUNTATA della storia de LO SGUGHI
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LA STORIA DI UGO
Ugo, il nostro Sgughi era l’ultimo dei quattro figli di Gigi di Buraschino.
Felice, il Buraschino, abitava in Via Diaccio nella corte Laetti. Possedeva
le ultime due case della corte. Ebbe quattro figli. Luigi detto Gigi,
Emma, Giulia e un altro che andò in America e pare che se ne perdessero
le tracce. Veramente io ricordo certe camice a quadri una volta che
mi dissero essere arrivato un pacco da uno zio d’America.
Alla morte della moglie, si sposò in seconde nozze con Rosina Banducci
di Tassignano, che fu subito detta “la Buraschina”. Con Rosina ebbe
cinque figli: Amato, Aurora, Bruna, Ginetta e Francesco. L’affollamento
in casa fece sì che tutti trovassero da sposarsi e così andarsene. Amato
sposò la Buralli del pane e andò ad Altopascio, Aurora prese il Piccinini
e i suoi figli si sono distinti nel settore maglieria, Bruna sposò Aldo del
Cinema, Ginetta resterà famosa per il negozio che avrebbe cambiato in
Via Sbarra e Francesco sarto in Via Roma.
Luigi detto Gigi nel frattempo si era sposato e aveva avuto quattro figli,
Felice, Ilaria, Attilio e Ugo, il nostro Sgughi.
Alla morte di Buraschino padre, Rosina, forse, fece in modo che Gigi,
che abitava con lei, si trovasse un’altra abitazione e lei prese in casa il
suo figlio minore Francesco. Così facendo, liberò una casa, dove andai
ad abitare io.
Corte Laetti, nel 1951, era un mondo unico, come tutte le corti del nostro
mondo, gli uomini erano scolpiti con l’accetta, le donne, portavano le
scarpe vecchie del marito, strascicandole nell’aia fra granturco steso a
seccare. Nelle cascine si toglievano i rami dell’alloro e le foglie sareb-
bero diventate materiale “vegetale” per i materassi. La lana era cara. E
se qualcuno ne aveva un materasso, ogni tanto doveva togliere la lana
e farla scardassare per ridargli spessore. C’era Amalia che abitava a
Giannini che lo faceva, alternando il materasso alle sue “chiarate”. Chi
non ha mai avuto bisogno di una “chiarata” da Amalia? Era una sorta
di ingessatura che era utile sulle slogature. Portavi le uova e la stoppa
ce la metteva lei.
La corte Laetti iniziava con la casa di Gervasio, figlio di Pellegro, carratore.
Costruiva carri e barrocci negli spazi in fondo alla corte. Quelle
grosse ruote di legno, gli incastri, i ferri, i cerchioni modellati con la
forgia, verniciati di nero, minio e cinabro...contadini che si fermavano
a fare due chiacchiere. Nel centro della corte ci abitava Angèlo (con
l’accento sulla e), che lavorava i campi oltre le capanne. La moglie Ida,
suo figlio, che chiamavano “Cendora”, e faceva l’autista di camion, la
nuora Vera e l’altro figlio Florio, biondo. Ricordo le risatine sommesse
di mio padre una sera che incontrò Florio che attraversava la corte dopo
aver lavorato tutto il giorno da Gervasio, un misto di colori, perfino i
capelli...
Erano gli anni che ricordo con gioia (per la mia giovinezza, per lo scoprire
il mondo, le sere che Pellegro mi portava in chiesa, in Coro, passando
di fianco all’altare, dove cantava Marino, suo genero e dove io
mi legai fin da piccolo a quel mondo). i giochi con Clara, ma erano gli
anni tristi della miseria. Un cesto di arance e due biscotti per Befana,
un regalo voluto, che mio padre mi portò a comprare nella bottega di
Angelina a “Paolo”, una donna anziana che viveva con la figliastra
Dora, il mio pianto che era di pentimento e di costrizione, l’espressione
bonaria di mio padre, pover’uomo.
Mio padre. Da fattore affermato a Marlia, nel dopo guerra si era dovuto
arrabattare e per farci vivere vendeva vernici da scarpe con un mosquito,
vernici fabbricate da Mario di Sonno, il marito della Modesta, padre
di Vera, indimenticate maestre. Poi, piano piano ricominciò a seguire
i poderi di alcuni possidenti e allora cominciarono le attese. L’ansia
del ritorno, lui con la moto, diversa e sempre usata, con la sua cuffia
di cuoio nera (anteprima del casco), acqua, freddo, vento, a Lucca per
i mercati, alla Cappella dove aveva i primi poderi da amministrare. Io
e mia madre con quell’aria tesa che solo al rumore del motore in corte
si allentava e allora ricominciavamo a parlare, “Andrea apparecchia,
sbrigati...” Mio fratello Dino se ne andò in Australia e lasciò il suo letto
libero accanto al mio, nella cameretta che guardava a mezzogiorno e
che era divisa da un armadio e da una parete di mattoni per ritto da
quella di Rosina, che sentivo muoversi la notte. Io che dormivo nel letto
di mio fratello e furono pianti quando mia madre lavò i lenzuoli nel
quale era rimasto il suo ricordo.
Ugo, lo Sgughi, veniva spesso e così Attilio, detto Tolò. Felice abitava
ancora lì, nella soffitta, aveva un letto fra le due finestre. Ugo vinceva e
tutti i mazzi di fiori li portava a Clara, che lei, piccola, non sapeva cosa
volessero dire, il significato e il valore di quei piccoli mazzi simbolici.
Tolò la prendeva e la portava in corte, a sedere su qualche scalino o
su un muretto e la imboccava “questo per la formichina, questa per la
mucca che fa muhhh nella stalla, questa per Chicca... aaahhmmmm”.
Attilio portava un fazzoletto in testa. Annodava le quattro estremità,
ci faceva le cocche e lo teneva in testa, per ripararsi dal sole. Ricordo
di aver pensato che non avesse molta salute, magro, educato e gentile,
sempre con quella pezzuola sul capo. Mi feci l’idea che soffrisse di mal
di testa. Ha continuato a salutarmi quando mi vedeva, anche da lontano,
e non ci siamo mai frequentati. Ha portato con sé il mio ricordo
di bambino nella corte de’ Laetti. La nostra mente è così strana: quando
qualcosa ti sfugge o non conosci, il tuo pensiero lo sostituisce con
qualcosa che a volte proprio non è la verità. Forse la sua bontà e rassegnazione
era scambiata da chi lo conosceva “di vista” per una specie di
dabbenaggine tanto che gli si era appiccicato addosso il nomignolo di
Tolò. Aveva gli occhi quieti, senza improvvisi colpi di vento, la sua vita
sembrava fatta di calma piatta, come gli acquitrini del padule e come
un cane spesso bastonato, teneva la coda fra le gambe, le spalle curve
e le zampe piegate.
E Felice, che Clara chiamava Suino, che non voleva alzarsi e restava nel
letto, vagabondo. Aveva un’aria aristocratica e in molti lo chiamavano
Conte, ma per la maggior parte Buraschino: in qualche modo aveva ereditato
il soprannome del nonno. Aveva un parlare forbito e un carattere
prepotente e brontolone. Aveva sempre e comunque ragione, sempre lui.
Felice passò dei brutti momenti quando lo trovarono davanti le Cantine
dell’Orfei, bastonato a morte, con seri problemi alla colonna vertebrale
e se poi tornò a vivere, anche se zoppo e sofferente, Clara mi disse fu
per merito della sua testardaggine. Visse perché voleva vivere ad ogni
costo. Si parlò di gioco e di debiti ma la storia ci dice che fu perché aveva
esortato e continuava a consigliare e a insistere con una donna che
faceva la vita presso Gemma di Ventura, un locale equivoco vicino, perché
smettesse di prostituirsi. E così una notte tornando a casa due individui
saltarono fuori dal ciuffo di canne fra Dino di Corrado e le case
del contadino dei Cavanis e gliele dettero fino a lasciarlo quasi morto
sulla strada. Ma come ho detto, volle vivere e trovò una sua dimensione
facendo l’assicuratore con successo.
VITTORIA A FONTANANUOVA. Guardate la gente, c'erano tutti!!!!!
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Tolò arrivava con quella sua piccola Ape con due secchi dietro che io
pensavo pieni di ranocchi... Ilaria non l’avevo conosciuta: si era trasferita
a Pescia, dove ha avuto e forse ha ancora, un negozio di verdura
sotto gli archi.
Gigì, con la moglie e i figli, uscito dalla casa di Laetti, andò ad abitare
a “Biroldo” in Via Farabosco, nell’ultima casa malandata di una corte.
Poi cambiò ancora e andò ad abitare a Rughi in Via Dezza.
Ugo aveva iniziato a correre. Lo aveva messo in bicicletta Renato di
Borgonuovo, un “biciclettaio”, che aveva bottega subito dopo il ponte
nel borgo, una capanna, un uomo autoritario. I “biciclettai” erano il luogo
per mettere le toppe alle camere d’aria e i “mancioni” al copertone, le
retine alla ruota posteriore cosi che le gonne delle donne non restassero
fra i razzini, ma anche dove scambiare due paragoni e parlare dei miti e
accendere discussioni. Come nelle corti. Ugo forse c’era andato a riparare
una bici, la madre di Ugo era di Borgonuovo, forse andava dai nonni,
oppure si fermava a parlare con Renato e lui aveva gli occhi buoni. La
prima corsa alla quale partecipò indossò la maglia che gli dette Roberto
Di Giulio, Robertone. Aveva la scritta Poggiocaro, era nera e portava
sulle spalle il numero uno (Roberto giocava al calcio ed era portiere). A
Ugo piaceva avere il numero uno sulle spalle. Lui voleva arrivare primo,
voleva stupire, Poi sarebbe nata la Poggiocaro Ciclistica per far correre
i tanti giovani.
In quegli anni c’era una volontà espressa di cambiare il nome a Porcari.
Era stato scelto il nome Poggiocaro. Ci fu chi si dette da fare, ma forse
non tutti erano d’accordo. Addirittura uno studioso, non molto per la
verità, per nobilitare il nome Porcari ebbe l’intuizione che derivasse da
Port Carolis (Porto di Carlo) visto che vicino c’era il Mons Carolis (MonteCarlo).
Non aveva studiato che già prima dell’anno mille esistevano
tracce di una Porcharia. Ma si vede che allevare i maiali era considerato
puzzolente e degradante per molti abitanti del luogo. Si cercava di
ridere dicendo che quando si fermava il treno, il capo stazione urlasse
“Porcariiiii” aggiungendo “con rispetto parlando”.
Ma stavamo parlando di chi metteva in bici questi ragazzi che non sapevano
cosa fare e vedere cosa ne sarebbe venuto fuori.
E lo Sgughi fu un campione.
quarta puntata il 27.07