RITORNO DALLA CACCIA
Per tre domeniche il nostro inviato Fausto è mancato all'appello. Da persona rispettosa aveva annunciato la sua assenza, con tanto di avviso in tempo debito, ma la sua mancanza sul nostro sito si è sentita. Ci sono mancate le foto, i fatti curiosi, le impressioni delle relative corse della domenica.
Il "nostro" non aveva abbandonato del tutto le sensazioni domenicali, aveva solo trasferito il suo habitat: dai viottoli e i sentieri delle nostre marce ai campi, alle radure, al limitare dei boschi, alla caccia.
Io non sono un cacciatore, non sono mai andato con un fucile in spalla, ma non l'ho fatto solo perché vengo da una famiglia dove non c'era un cacciatore, ho frequentato amici che avevano altre passioni.
Mi ha sempre affascinato, in casa di parenti, che vedevo solo raramente, l'armadietto con i fucili, i cani che ti guardano con rispetto e curiosità, si avvicinano delicatamente, gli stivali verdi, la cartucciera, la giacca con il tascone sulle spalle. Sono un grande ammiratore di Franco Betti, un pittore che dipinge la natura meglio di come sia in realtà, ho sempre ammirato i suo quadri di caccia, i suoi biodoli per il ritorno dalla palude, un bozzoletto su una tovaglia a quadri, sempre con misura, dolcezza, senza far vedere la parte cruenta della cosa. Oppure i calendari dove la massaia segna le sue cose, i suoi appuntamenti e il marito quando ha seminato la bietola e il Betti ci mette attaccati sopra due tordi.
Non sono mai andato a caccia, non ho mai sentito il rumore dello scoppio che ti rimbomba nella testa e l'odore della polvere da sparo. Forse, se lo avessi fatto, sentirei anch'io il brivido di veder sparire dietro un campo di granturco un fagiano.
Ho come visione della caccia la parte bella, forse.
Invidio il cacciatore per le sue albe fredde, per i panorami che si annunciano prima come scuri contorni per diventare a mano a mano, con il sole che si alza, con le nebbie che si diradano, con la luce che creando ombre da profondità, una realtà. Invidio a loro l'amicizia con il loro cane, le loro intese, i loro segreti. La fraternità del fine di una lunga giornata di caccia, un desinare dove non ha importanza cosa si mangia, ma solo il cosa si dice, il cosa si racconta, il cosa si rivive.
Queste sensazioni così diverse dalla cruda realtà di un ufficio o di una cena d'affari dove ci si guarda, come giocatori di scacchi, per trovare dove si può colpire l'uomo, trovargli il punto debole. Certo la caccia ha un fine: quello di far fuori un animale, certo, di privarlo della vita. Certo. Ma ci sono delle regole e se si rispettano si mantiene un equilibrio dove chi esce viva è la natura. Del resto il mondo va avanti in questo modo, giusto o sbagliato che sia, avete mai pensato che l'uomo non è libero di nascere come non è libero di morire?
Si può parlare di caprioli, del cambio del colore del loro manto, di come crescono, di come fuggono, di come si riproducono. Possiamo scrivere dei danni che gli animali fanno alla flora, agli alberi, ai boschi. C'è chi ama la natura in modo ossessivo e totale. Ma va a caccia, con le regole del gioco, nelle sue tradizioni.
Io non scrivo della caccia per sensazioni provate, ma solo immaginate. Il frullo di un fagiano che si stacca contro il delinearsi di una collina, pali della luce, cipressi toscani, casolari lontani. Ho sentito volare il fagiano nei miei allenamenti di corsa solitaria e ci siamo meravigliati in due, io e lui, il fagiano, tanto che il mio cuore batteva nel sentire quel rumore quasi di elicottero che si alzava in volo, prima di scappare lontano. Immagino l'ansia del cacciatore, l'attesa infinita, a volte che si protrae per tutta la mattinata, la stanchezza delle gambe, delle giunture, del peso di una doppietta sulla spalla. Vedo una distesa di animali cacciati, ma mi impressiona l'immagine, il quadro, quasi un delicato Matisse.
Ed è questo che io invidio al nostro Fausto e così lo attendo.
Andrea Bartalesi